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Visualizzazione dei post da marzo, 2012
POESIA CIVILE E POESIA INCIVILE Da alcuni anni emerge in Italia un filone che sembrava definitivamente abbandonato, e anzi del tutto impraticabile: quello della poesia civile. Già nell’ultimo Raboni la volontà di testimonianza civile si faceva più impellente, pur nell’equilibrio di discrezione che egli non ha mai tradito nella parabola della sua scrittura. Ma ci sono casi più clamorosi, e persino sorprendenti: sia perché provengono da poeti in cui l’ardore civile era pressoché insospettabile, sia perché una serie di eventi, letterari e metaletterari (le avanguardie panlinguistiche del secondo Novecento, il crollo del marxismo, la caduta del muro di Berlino e la “fine della storia”), li facevano apparire a prima vista del tutto anacronistici. Questo tentativo, questo intendimento, è di per sé meritevole di ammirazione. Perché esprime una urgenza morale, un impulso interiore, come avrebbe detto Quasimodo, a “scendere dalle torri di avorio”, e sporcarsi le mani con umori e con paro

poesia LE SCARPE

LE SCARPE Ho un paio di scarpe nuove camminano ch’è un piacere. E come corrono! stento a tenergli dietro. Non temono palude né acquitrino, né deserto di sabbia né muraglia di pedoni, che risse che baruffe che clamori sempre mi vanno dentro. Ora non soffro più la lontananza di crocicchio in crocicchio io so che vengo a te; ma tu, non cambiar veste, non farti scoraggiare da quei lampi, io vengo a piedi. Dicono che in Canada giungono a volte piedi d’uomo da soli a riva, ce li porta il mare, strappati a chissà chi che forse andare oltre non voleva, un piede nella scarpa prigioniero laggiù, terre lontane. Oh come va veloce questo globo però non so se corro insieme a lui o se incontinente gli vo incontro eppure le ho pagate pochi soldi alla fiera di marzo.