Maíra (i nomi sono di fantasia, le storie sono vere) è una donna brasiliana, ha trent’anni. Fin da subito si mostra aggressiva, aspra, nei miei confronti. Mi chiedo perché è così ostile, mentre invece sembra ben integrata in una classe in cui peraltro si lavora bene, non si sviluppano particolari contrasti. Nei compiti in classe commette gli errori tipici di chi è di lingua portoghese e cerca di scrivere in italiano, glieli faccio notare, lei mi risponde con frasi strane, tipo: “Prof, tu non capisci. Tu non vuoi capire!”.
Si va avanti così per un mese. Finché capita il compleanno di
una sua compagna, lei porta i dolci, a fine ora si brinda, seppure non con
l’alcol ma con l’acqua gassata; si scherza. Allora Maíra mi si avvicina, mi dice: “Prof, io ti odiavo perché tu il
primo giorno ci hai detto che sei calabrese. Ed io, appena venuta in Italia, ho
conosciuto un uomo, ho creduto alle sue promesse, me ne sono innamorata. Poi
lui mi ha portato dove aveva casa, in Calabria. Ma era geloso, era fissato. Ed
era prepotente. Mi teneva chiusa in casa, mi picchiava. La mia vita per due
anni è stata un inferno. Finché un giorno ho trovato il coraggio; sono
scappata. Così com’ero, ho lasciato tutto lì, non ho portato con me neanche una
maglietta di ricambio. Sono venuta in autostop a Milano, i primi tempi dormivo
alla stazione. Poi ho incontrato una persona diversa, che era dolce, mi ha
aiutato. Così ora sto provando a vivere una nuova vita, mi sono messa a
lavorare, ho ripreso a studiare, voglio prendere il diploma. E, prof, forse hai
ragione tu, con quella cosa che dici sempre. Che non ci sono calabresi e
milanesi, che non ci sono italiani e brasiliani, neri e bianchi. Ma ci sono
semplicemente persone”.
L’anno scorso c’è stata quasi soltanto la didattica a
distanza, e Raffaele, nelle ore libere dal lavoro, si collegava dall’ospedale.
Fa l’infermiere, lavorava nel reparto dei malati di covid. Era assai motivato,
e nell’inviare i compiti era fra i più scrupolosi; sempre impegnato a mettere
in evidenza l’importanza del lavoro, che, dice, non è mai soltanto guadagnare
il necessario, ma dare un valore al nostro esserci; e scegliere, perché quasi
ogni giorno ci troviamo davanti a un bivio, e quello che decidiamo, per noi ma
soprattutto per gli altri, non è mai indifferente. Soltanto mi chiedeva di
tenere la telecamera spenta, perché non aveva il tempo di andare a casa e
tornare, mi seguiva col telefonino, e doveva stare attento perché di tanto in
tanto il malato che assisteva si muoveva, si lamentava, e rischiava di venire
inquadrato.
Amita è una ragazza del Bangladesh, di famiglia musulmana, ha
ventidue anni. Il padre non la costringe a indossare il velo, ma la accompagna
fino al portone, e quando esce è sempre giù, ad aspettarla. Durante tutto l’anno
non ha mai fatto un’assenza. Eppure capisce poco l’italiano, e quando ci
troviamo in classe solo io e lei (è capitato più volte) dopo la mia lezione,
dopo i miei improbabili tentativi di conversare, il tempo che rimane si
trasforma in una specie di seduta di meditazione. Con le compagne è sempre
affabile, anche se pure con loro la comunicazione si svolge più che altro
attraverso gesti e sorrisi. Una volta in un tema, in un italiano molto alla
Sanguineti, mi ha spiegato che per lei venire a scuola rappresenta l’unico
contatto con il mondo.
Poi c’è Selma, che è scappata da casa dove ne aveva subite di
tutti i colori, ora vive in un centro protetto, e l’assistente sociale
l’accompagna a scuola, raccomandandosi di tanto in tanto che il suo profitto
importa poco, ma invece esserci conta davvero, è tutto lì. E Carla, che era
bulimica, dunque parecchio sovrappeso, i compagni la prendevano in giro. Allora
una volta si gettò dalla finestra. L’hanno salvata, questo è stato tre anni fa.
Ora ha ricominciato a frequentare la scuola, ma questo è un altro ambiente: è
grassa, ma non se ne vergogna, anzi si muove agile senza preoccuparsi dei suoi
chili in più, e sorride.
A volte, in questo Serale della periferia di Milano, perfino
la nebbia, che le involuzioni atmosferiche provocate dal Sapiens che si nutre
di plastica e fertilizzanti chimici ha quasi cancellato, torna a far capolino:
ci aspetta all’uscita, giù in strada. Sì che siamo portati a dondolarci, a
chiacchierare nel fondale vago, mentre aspettiamo il tram che diventa pigro e
rarefatto a queste ore della sera. Ed è quasi mezzanotte. Ma io so che i miei
ragazzi ce la faranno: che questa volta hanno deciso, che nebbia o non nebbia,
covid o non covid, non si fermeranno. Che, con il sangue e con i denti, hanno
conquistato questa seconda possibilità di esistenza. E faranno in tempo, questa
volta saranno in tempo, non sarà troppo tardi, riusciranno a salire sull’ultimo
metrò.
Franco Dionesalvi
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