La questione culturale
Gian Antonio Stella, sul Corriere della Sera, pone la questione della cultura. Lancia un appello perché questa materia venga riammessa nel dibattito e nei programmi della campagna elettorale in corso, da cui è totalmente assente (senza che peraltro questa assenza rappresenti una novità). E propone l’istituzione in Italia del Ministero della Cultura, al posto di quello, più defilato e “blando”, dei Beni Culturali.
È un problema di intitolazione di un dicastero, certo, ma le parole hanno un peso, e dunque sul piano simbolico acquisirebbe una valenza. Ieri sullo stesso giornale Matteo Orfini, pur esprimendo apprezzamento precisava proprio che “la cultura non è una questione nominalistica”. Il che vuol dire comprendere che essa non concerne un settore, ma implica il modo in cui si guardano le cose, l’approccio complessivo alla dimensione pubblica: non è una branca, ma una prospettiva.
Orfini peraltro ricorda la vicenda di Sibari: “quanto abbiamo dovuto aspettare perché il sistema dell’informazione si accorgesse della tragedia di Sibari?”.
Infatti, è occorso tutto l’impegno di questo giornale, un appello di intellettuali, un tam-tam di volenterosi che ha utilizzato la rete e persino gli sms; e anche così la notizia per arrivare sulle pagine di Repubblica e del Corriere ha impiegato dieci giorni, i tempi che ci volevano quando le notizie arrivavano col calesse.
La questione culturale è quanto mai attuale in Calabria, per il disastro di Sibari ma anche per la discussione in corso sui contributi regionali alla cultura, che si stanno riordinando nel senso di metterli in un unico calderone, cosa che preoccupa molti operatori.
Ma gli esponenti politici che si sono alternati alla guida dell’assessorato regionale alla cultura, nella migliore delle ipotesi ci hanno presentato il conto della spesa, si sono vantati di aver destinato a questo o a quello tot centinaia di migliaia di euro. Se volessero farci un rendiconto convincente, dovrebbero piuttosto dirci quanti libri in più sono stati acquistati e letti dai cittadini calabresi per effetto della loro azione, quanti biglietti del teatro in più sono stati staccati, quanti film o album musicali sono stati prodotti e hanno conquistato uno spazio sul piano nazionale. Ma questi numeri sono sempre drammaticamente in rosso.
O , se non si vuole ridurre a questione di mercato, ci dicano almeno quanto sono diminuiti i crimini, quanto è arretrata la credibilità della logica mafiosa fra i giovani grazie alla promozione della cultura della legalità, o quanto è cresciuto grazie alla loro azione lo spirito imprenditoriale, o quanto sono migliorati gli esiti dei nostri studenti nei concorsi nazionali.
E invece non è una questione di soldi: Baricco qualche anno fa propose di abolire ogni sostegno pubblico al cinema, al teatro, alla musica, sostenendo che le opere valide sono in grado di reggersi da sé, e i prodotti che non conquistano il pubblico è meglio che scompaiano. Una provocazione, ma utile a porre più correttamente i termini della questione. I soldi che la regione investe in cultura per certi versi sono troppo pochi, ma per altri sono troppi: dipende da ciò che se ne fa, dai benefici che ne ottengono i cittadini, intendo tutti i cittadini, non alcune lobby o alcune corporazioni.
Diamo spazio e centralità alla cultura, ma in senso autentico. Ossia cultura come opportunità di crescita interiore (che vuol dire maggiore possibilità di felicità), come presa di coscienza (che vuol dire sviluppo di spirito democratico), come elaborazione della propria identità (che vuol dire partecipazione). Il che implica, ad esempio, la scelta di un turismo non quantitativo ma qualitativo, che moltiplichi le occasioni ma sia pronto a scoraggiare chi viene a insozzare le spiagge. Implica la rinuncia ai contributi a pioggia e la scelta di puntare su uno-due eventi che restino nell’immaginario collettivo, che facciano venire la gente in Calabria come sa fare Spoleto. Implica che non ci si limiti a togliere il fango, ma che intorno agli scavi di Sibari, intorno a Locri antica, intorno ai bronzi di Riace, si costruisca un diverso modo di intendere la politica territoriale, le scelte economiche, la percezione della comunità.
Franco
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