Se avete
intenzione di diventare deputati o senatori, c’è poco da fare: dovete sforzarvi
di capirci qualcosa, fra collegi uninominali, meccanismi dei resti, listini
bloccati. D’altra parte un po’ di soldi dovrete investirli, quindi potete
pagare qualcuno che studia tutto per voi, un po’ come andare dal
commercialista.
Ma per
fortuna questa cosa riguarda solo qualche migliaio di persone; poi restano
sessanta milioni di italiani che hanno solo l’interesse ad essere adeguatamente
rappresentati. E dunque la legge elettorale conta perché possa rendere
possibile quella grande voglia di partecipazione diretta che è stata espressa
con quel gigantesco “no” al referendum del dicembre scorso.
È qui che
entrano in ballo i vari meccanismi elettorali. In questo dibattito la cosa che
guida i partiti è il calcolo della convenienza: quanti seggi in più si possono
guadagnare con un sistema o con un altro.
Poi tanti
pongono il problema della governabilità: dicono che il giorno dopo le elezioni
bisogna sapere chi ha vinto, perché per l’economia, per i rapporti con gli
altri paesi, per il funzionamento della macchina c’è bisogno di efficienza.
Bisognerebbe probabilmente ricordare che esiste un modello che esprime i massimi
livelli possibili di governabilità e di efficienza, ed è un modello
giustappunto tedesco. Si chiama Adolf Hitler.
È questo il
modello verso cui tendere? Mi pare piuttosto che quello di cui c’è bisogno è
democrazia, rappresentatività, potere effettivamente, e non solo nominalmente,
esercitato dal popolo. È questa la sola possibile terapia contro i populismi, e
contro le sfiducie e le disaffezioni al sistema democratico. Quelli più
efficienti nella storia sono i tiranni, sono i macellai. La democrazia è invece
una cosa difficile. Ma val la pena di provarci. È importante che ci sia
corrispondenza fra le idee della gente e i suoi rappresentanti. E che gli
elettori possano esercitare davvero il controllo su coloro che hanno mandato in
parlamento. Magari prevedendo la possibilità che gli stessi elettori possano
revocarlo, quel mandato. Dopo sei mesi, non dopo cinque anni.
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