Quella volta che
Antonello, Nello, Gianni…
E poi quella volta Antonello, Nello, Gianni, Massimo, Larry
vennero a trovarci, fra le nostre cataste di Oscar Mondadori e i nostri fogli
dattiloscritti, fra le nostre carte appallottolate e i nostri aquiloni, lì,
nella sede del Laboratorio di Poesia di Cosenza.
Qualcuno di noi era
preoccupato, “Quelli sono dei pericolosi anarchici – diceva Pasquale – ci
spaccheranno tutto”. Ma Raffaele, il più timido di noi ma anche il più
mentalmente spericolato, aveva insistito: Dai, diceva, questi qui ci porteranno
una ventata di aria nuova, ne abbiamo bisogno, non possiamo stare solo a
trastullarci di parole pesanti, di Montale e di Sanguineti. E così io mi
arrischiai: va bene, proviamo, facciamoli venire.
La loro entrata fu decisamente spettacolare. Gianni era una
sorta di maschera senza travestimenti della commedia dell’arte, parlava e
insieme cantava, tratteggiava e intanto danzava. Nello sembrava il leader, un
po’ stratega un po’ guappo. Antonello possedeva un’ironia naturale, ogni
tragedia riusciva a trasformarla in farsa, e quando ti induceva a sorridere di
nuovo te la discopriva nella sua intimità di tragedia. Massimo era il più
giovane, il più timido, ma quello che – dicevi – questo da grande diventerà
Rivera. E poi c’era Larry, raffinato e leggiadro, che sembrava essere piombato
lì direttamente dal Seicento francese.
Quelli lì erano il Centro Rat; e poi sarebbero arrivate
Dora, Antonella, gli altri. E sarebbero andati avanti, fra slanci proditori e
dolorose scissioni, perché la vita è anche questo. E Gianni assai presto lasciò
questa valle di lacrime e di sogni. E loro riassestarono un vecchio
magazzino che chiamarono Playcentro e
divenne uno spazio per attività teatrali, che si trovava nel cuore del centro
storico, ma allora nessuno lo chiamava così, per tutti era Cosenza vecchia. E
che stava a due passi dalla libreria Fasano, dove invece noi inventammo
Inonija, una rivista di poesia che fu anche quella una cosa impensabile per
quella città del sud dove ancora si arrivava con la littorina che impiegava
un’ora e mezza per fare trenta chilometri; e la facevamo con Angelo e ancora con Raffaele, e anche loro
due se ne andarono che erano poco più che ragazzi.
Ma il sogno di quegli “anarchici” andò avanti, e addirittura
riuscirono a costruire un teatro, nel centro della città; e lì fecero venire
gente come il Living Theatre, roba che conoscevamo giusto per quei libri
quadrati pieni di fotografie in bianco e nero che parlavano di una America
diversa e urlante e incantata; libri che ci passavamo di mano in mano.
E con quegli “anarchici” io finii col collaborare per anni e
anni, fra tante consonanze e qualche freddezza. E fra quel che più ricordo, al di
là degli spettacoli forse belli – ma io non posso dirlo – che facemmo insieme,
da “Ricostruzione di un delitto” a “Non seppellitemi vivo!”, ci sono le
tournée, voli del carburante ma soprattutto dell’immaginazione. La Polonia, col
suo sapore di muri che cadevano, di primavera dell’ideologia e della
consapevole illusione da mondo nuovo che avveniva. E i paesi nordici, con la
loro neve che non attendeva altro che di lasciarsi sciogliere. E l’Armenia,
dove non facevano che farci ubriacare per cui se abbiamo fatto pure teatro non
riesco proprio a raccontarvelo.
E insomma sì, lasciate che lo dica, anche se suona un po’
come una commemorazione. Il teatro dell’Acquario è stato determinante per la
città di Cosenza. Per la formazione di tanti suoi giovani, per la riflessione
culturale che impose agli strati più impermeabili e pronti all’autoimbalsamatura
della città.
E naturalmente questi spazi ha dovuto conquistarseli con le
unghie e coi denti, come sempre accade a chi agisce non perché spinto da
padrini ma da uno slancio ideale, da una istintiva e irriducibile
determinazione. Buon compleanno, allora, teatro dell’Acquario. Continuate ad
agitare le stampelle dei vecchietti fondatori e i pattini dei giovani virgulti!
E soprattutto non smettete mai di sognare!
Franco Dionesalvi
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