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E' uscito CAPOVERSO, semestrale di poesia, dedicato a Pasolini in occasione dei 40 anni dalla morte. Contiene molti contributi di vari autori. Ecco l'introduzione.

               editoriale
SENZA PASOLINI
Sono quarant’anni che abbiamo perso Pasolini. “Lascia un vuoto incolmabile”, si dice abitualmente degli scomparsi, ed è una frase spesso un po’ bugiarda. Ma in questo caso è vero: Pasolini non è stato sostituito da nessuno, probabilmente non era possibile. Con lui se n’è andato un modo diverso di intendere e praticare il ruolo dell’intellettuale: non un professionista dell’editoria o delle lettere, ma un “sacerdote”, una persona che si vota all’elaborazione teorica, alla percezione del “senso”, e a queste informa tutte le scelte della sua vita. Inseguendo una idea di coerenza assoluta, e sposando quelle scelte costi quel che costi, fino alle estreme conseguenze. Pagando, se necessario, anche con la vita. Di gente così, in Italia, non ce n’è più stata. E ci mancano, infatti, interpreti del nostro tempo capaci davvero di farci cogliere quel che lo sguardo superficiale non vede, di aprirci gli occhi  a una comprensione più profonda e più lucida della realtà.
Inimitabile, Pasolini.
Intanto perché il suo anticonformismo, la sua singolarità spiazza e disorienta ancora oggi, e dunque rende impossibile il pur praticato mestiere dell’imitatore. Poi perché è difficile trovare persone, come lui, pronte a sacrificarsi, in un tempo in cui tutto si misura in denaro e ogni azione è preceduta dal calcolo degli interessi e delle convenienze. Così difficile imitarlo, e anche così arduo capirlo, l’autore degli “Scritti corsari”; al punto che lo si cita spesso a sproposito. Come quando si ricorda la sua difesa del poliziotto, e non si capisce che dietro non c’era un richiamo alla disciplina, ma l’invito a guardare con occhi liberi, senza preconcetti, per cogliere la complessità del reale e non soltanto quello che la nostra ideologia ci porta a vedere.
Pierpaolo Pasolini denunciava la progressiva e ineluttabile perdita di quelle che riconosceva come le caratteristiche più autentiche e impagabili della natura umana. Diceva, più di quarant’anni fa, che l’”edonismo consumista” ci aveva catturato, tutti, e ci divorava dall’interno, facendoci perdere l’immediatezza, la naturalezza, la poesia. E che il “nuovo fascismo”, il “potere senza volto”, era peggiore dei precedenti, ed era quello della televisione, dell’omologazione, del conformismo: subdolo e insinuante, impediva la contrapposizione frontale e dunque era destinato ad annientarci senza mai mostrarsi.
Poi andava in cerca di quanto ancora restava dell’autenticità umana, che inseguiva nei sud del mondo, nell’Italia meridionale prima, in Africa poi. Ma sentiva la macchina del potere consumista, ineluttabile, arrivare, trasformare tutto in merce. Intanto gli altri poeti, gli altri cineasti, gli altri intellettuali discettavano e discettano di forme e di sfumature, di premi e di cordate.
Persino la sua morte, ancora per certi versi misteriosa e inestricabile, appare come una ulteriore, disperata denuncia, come il sacrificio d’amore del più tormentato e cupo fra i “santi”.
Quando Pasolini morì, io ero da pochi mesi direttore del Centro Servizi Culturali, a Cosenza. Feci un comunicato in cui esaltavo la sua figura e il suo “insegnamento”. Mi dissero che quel comunicato non poteva andare, perché Pasolini era un corruttore di giovani. Per protesta mi dimisi. Di lavori ne avrei lasciato diversi, poi, nel corso della mia vita. Ma quel mio piccolo omaggio indica che un uomo così è entrato, intimamente, nella vita di tanti di noi.
Era il 2 novembre quando, in uno spiazzo polveroso all’Idroscalo di Ostia, trovarono ucciso Pierpaolo Pasolini.
Il poeta della “disperata vitalità” venne trovato morto proprio nella periferia suburbana in cui aveva ambientato i suoi romanzi, “Ragazzi di vita”, “Una vita violenta”, “Petrolio”.  E accadde nella notte fra la festa di Ognissanti e la ricorrenza di tutti i morti, come in fondo era giusto perché lungo quella linea di confine fra il bianco e il nero, fra il bene  e il male, fra il santo e il dannato egli aveva vissuto, consumato e immolato tutta la sua esistenza.
Pasolini, è risaputo, era omosessuale. Aveva sopportato questa sua condizione in un tempo in cui non veniva affatto accettata, ma consegnata alla dimensione delle tenebre e dell’inconfessabile. Peraltro la sua intensa, sebbene non dogmatica, religiosità, e il suo forte senso morale, lo costringevano a misurarsi incessantemente con la condizione della colpa, con l’auto-condanna della purezza perduta. E aveva subito i processi, per il suo “peccato”. Era stato scacciato dal partito comunista. Era stato espulso dal corpo insegnante. Aveva visto censurati e condannati i suoi film. Ciò nondimeno la sera Pasolini andava a caccia dei suoi corpi di ragazzo e dei suoi impossibili amori, tiranneggiato da un’idea forte e febbrile di bellezza che doveva incessantemente inseguire, pur sapendo che per lui era inattingibile, che poteva solo scottarlo, ricacciarlo indietro nello stesso istante in cui si illudeva di raggiungerla e possederla. Questo gioco perverso lo induceva in quelle notti a scorrazzare per le periferie della metropoli, lungo le borgate, fino in fondo alla strada, fino alle baracche, fino al mare. Di più, davvero, non possiamo sapere. Una cortina di mistero ha coperto e portato via per sempre uno dei pochi grandi artisti che l’Italia abbia annoverato nel secondo Novecento. Alcuni hanno sostenuto che dietro l’omicidio ci fosse un movente politico, che il contesto erotico servisse solo a coprire la longa manus di un potere clerico-fascista. Altri hanno posto l’accento sul senso simbolico di questo delitto, su come egli l’avesse prefigurato e profetizzato; vi hanno letto insomma il compimento di una vita che è tutta una poesia, straziante e crudele, anticonformista e vera.
A questa vicenda dedichiamo questo numero speciale di “Capoverso”. Provando, con l’aiuto di numerosi contributi che spaziano in diversi campi e diverse prospettive, a indagare ancora su quanto Pierpaolo Pasolini ha lasciato di sé, del suo pensiero, della sua percezione dell’incanto della vita.
                                                                
                                                                        Franco Dionesalvi



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