Chissà come
sarebbe stato, se fosse andata diversamente. Se i Soviet ci fossero ancora, se
fossero i consigli di fabbrica a gestire le imprese e non i padroni. Se fosse
il Presidium del Soviet Supremo a decidere le politiche economiche del paese, e
quelle internazionali.
Il fatto è
che, a un certo punto del processo, qualcosa non ha funzionato. Ma qualcosa di
enorme, mica da poco. Secondo il pensiero marxiano la rivoluzione si doveva
evolvere nella fase due: lo Stato doveva progressivamente ridursi, arretrare,
fino a dissolversi. E al suo posto doveva affermarsi la comunità di liberi e di
uguali, senza classi, senza organizzazioni repressive, senza leggi. La realizzazione
finalmente di una società davvero umana, governata solo dalla solidarietà e
dalla ragione.
Ma invece è
andata in tutt’altro modo. La dittatura del proletariato, che doveva guidare il
viaggio verso il comunismo, è degenerata in una dittatura spietata, di pochi
uomini, e talvolta di uno solo. Poi l’Unione Sovietica è diventata meno brutale
e più moderata, con Chruscev, poi con Gorbacev. Ma ormai il giocattolo era
rotto, il sogno si era frantumato.
Penso a
queste cose mentre a Milano celebrano i cento anni dell’Ottobre con una
rassegna di film d’epoca della rivoluzione russa, vecchi mostri sacri del
cinema muto col pianista che li musica dal vivo. E la gente più che altro sta
attenta all’esecuzione, ha l’atteggiamento dei visitatori del museo; poco ci si
occupa di ciò che scorre dietro. Diverso era quando quei film li vedevamo per
la prima volta, negli anni Settanta. Allora cercavamo una logica e una linea
che ci guidasse; e identificavamo in Lenin il buono e in Stalin il cattivo,
mentre Trockij era più difficile da decodificare, meglio non schierarsi.
Ora della
rivoluzione socialista non parla più nessuno: a “sinistra” perché la si
vive come una malattia infettiva da cui
ci si è appena vaccinati, meglio non parlarne affatto. E a “destra” perché la
battaglia si è vinta, con la propaganda e la retorica più che altro, e allora
meglio intascare la vittoria e non approfondire ché è andata bene.
Frattanto
c’è un signore che ha pubblicato un annuncio a pagamento sul Corriere della
Sera. Ricorda i cinquant’anni della morte del Che. Ha speso soldi di tasca propria
per scrivere a grandi caratteri sul giornale “Hasta la victoria siempre”.
Forse è da
questo gesto romantico e un po’ insensato che bisogna ripartire.
Perché il
problema non è affatto risolto. Perché i “compagni” hanno sbagliato, e di
brutto. Ma non possiamo assolutamente rassegnarci. Dobbiamo, in un modo o
nell’altro, domani o fra cento anni, realizzare quell’aspirazione alla
giustizia e all’uguaglianza che sta incisa nelle nostre menti fin dal
principio.
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