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In ricordo di "don" Umberto Grandinetti

A distanza di qualche settimana se ne sono andati Cesare Milaneschi e Umberto Grandinetti. Peraltro si erano ritrovati, insieme a rappresentanti di diverse religioni, dalle varie chiese cristiane ai musulmani, ai buddisti, agli induisti, in una edizione di diversi anni fa della Festa delle Invasioni. Perché qualcuno dovrebbe pur spiegarlo, ai giovani che non possono averne memoria, di come è nata, con quale progettualità, e con quali modalità si è sviluppata, a Cosenza, la festa delle Invasioni nei suoi primi anni. Si trattava di tutta altra cosa da quel che è adesso, ossia una sigla da mettere sul cartellone estivo per cercare di lucrare qualche finanziamento dalla Regione. Nei primi anni poneva la città di Cosenza come portavoce di una proposta di senso: quella di vedere nello straniero non il nemico, ma un’opportunità di crescita; non un minaccioso invasore, ma qualcuno che viene ad arricchirci, strappandoci alla nostra solitudine e vincendo il nostro solipsismo, le nostre ossessioni, le nostre paure.
Così la Festa ha spinto i cosentini a dialogare, con filosofi e con poeti, con musicisti e con asceti, con economisti e con teatranti; di tutte le razze, ossia dell’unica razza che è quella umana.
Cesare Milaneschi, pastore protestante, è stato per diversi anni a Cosenza, a guidare la comunità valdese. E ci ha aiutato a ricordare che Cosenza è stata anche teatro, alcuni secoli fa, di un eccidio crudele e insensato, nei confronti di una minoranza religiosa contro la quale si dispiegava la consueta alleanza fra il potere temporale e quello spirituale, fra il denaro e le indulgenze. Milaneschi ha svolto un lavoro culturale in città, sempre proteso non a sterili rivendicazioni ma all’ecumenismo, a privilegiare ciò che unisce piuttosto che quelle divisioni che sanno  molto di burocratico e che pure hanno a lungo caratterizzato la storia delle chiese.
Umberto Grandinetti fu, negli anni Ottanta, il sacerdote di riferimento di una esperienza che si sviluppò a Cosenza, e segnatamente nel quartiere San Vito, ascrivibile a quel fenomeno nazionale che i giornalisti chiamavano “Cattolici del dissenso”, e che si autodefiniva movimento delle “Comunità di base”. Che rappresentava una pacifica e radicale contestazione della chiesa dal suo interno, con l’intento di recuperare l’autenticità evangelica liberandola dalle pastoie dei sacramenti burocratizzati, dei regolamenti con gli imprimatur delle autorità e dei paternalismi che si ammantavano di potere teologico e di mistero.
Mossi dalla finalità, naturalmente generata dalla cultura e dalla sensibilità del Sessantotto, di rifondare la chiesa sugli ultimi e non più sui primi, guardando ai bisogni della gente e non a tradizioni sacralizzate e ormai svuotate. Così nella messa celebrata da don Umberto prendeva la parola chi voleva, invece della predica cattedratica c’era l’assemblea. Chi scrive ebbe un ruolo marginale nella vicenda; ma sarebbe auspicabile che qualcuno dei protagonisti ne scrivesse, perché quella pagina della storia di Cosenza deve essere raccontata e condivisa. Poi Umberto si innamorò di una donna e, a differenza di alcuni suoi colleghi, decise di non vivere nascostamente la storia, ma di renderla pubblica; e così perse il “don”, e dopo un po’ di anni e varie disavventure lasciò anche la città.
Mi piace ricordare insieme queste due figure così distanti perché poi c’era una cosa che le accomunava: il loro appartenere a un modo diverso di intendere la religiosità. Fatto non di granitiche certezze, di dogmatismi carichi di autocompiacimento; ma di dubbi, di interrogazioni, di un cammino senza divise e senza garanzie.
                                                                

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