Un po’ di sere fa a piazza Castello, a Milano, era spuntata
una luna vaga e suadente. Capace di sorprenderti; per la sua precocità, perché
non erano nemmeno le otto, e per la sua interezza. Non ingombrante, ma netta.
Non prepotente, ma chiara ed eloquente, come solo questo corpo celeste sa fare,
almeno per noi terrestri che conosciamo una così piccola parte di universo.
Peraltro si era fatta strada fra le cime dei palazzi, e col
suo chiarore discreto rilanciava effervescenze di luce a quella giornata che
indugiava, e non si rassegnava a risolversi nella notte.
Poi, con mia sorpresa, vidi un capannello di persone, uomini
e donne, che guardavano, commentavano e ridevano. Anch’io sorrisi compiaciuto:
che cosa bella, pensai, che in questa metropoli ipertecnologica le persone si
fermino per strada a guardare la luna! E questi sguardi così compiaciuti, direi
addirittura allusivi… Fu allora che mi resi conto che quelle persone non
stavano osservando la luna, ma un po’ più giù. Dove era stato posto un
gigantesco cartellone pubblicitario, in cui c’era Cristiano Ronaldo, che
pubblicizzava una marca di intimo. E la foto non faceva nulla per celare le
forme anatomiche coperte dagli slip del calciatore…
Il celebre koan del dito e della luna è incentrato sul dito
che indica, e i maestri zen insegnano che non bisogna guardare il dito, ma la
luna vera. Mi chiesi se funzionava anche in questo caso, se per cogliere il
senso profondo di questo tempo bisognasse scavalcare il dito e concentrarsi su
ciò che quel dito indicava.
D’altra parte basta andare in piazza Duomo, e il paesaggio
non cambia molto. Un pezzo della chiesa è coperto da un pannello di grandezza
esorbitante, che trasmette immagini pubblicitarie. Certo, si tratta dello sponsor
che contribuisce a coprire i costi del restauro della chiesa, dunque la
giustificazione c’è. Ma resta il fatto che chi va lì per illuminarsi d’immenso
si riempie la testa di messaggi commerciali.
Ed è così sempre più spesso, nelle nostre città. Spesso i
servizi televisivi delle trasmissioni di denuncia mostrano le brutture che
invadono i luoghi di pregio delle città: la spazzatura buttata in strada, i
rifiuti accatastati, i sacchetti, gli pneumatici, le cartacce. Certo. Ma c’è un
altro modo di deturparle. È con questo inquinamento visivo, fatto di immagini sicuramente
ben girate, di foto abilmente scattate. Capaci di attrarci, anzi di
monopolizzare il nostro sguardo e la nostra attenzione. Che però così ci priva
delle immagini vere di una piazza, di un quartiere, di un paese. Del suo
paesaggio naturale, dell’arte di persone ingegnose che, nel corso dei secoli,
hanno caratterizzato i luoghi con le loro visioni, con i loro approcci
all’armonia, coi loro modi di raccontare la storia. Ma che non possono reggere
davanti al fascino perverso e drogato degli schermi che sempre e ovunque, in
versione micro o macro, monopolizzano le nostre menti. Così, quando torniamo da
un viaggio, certo raccontiamo del Duomo, del Raffaello, della Colonna. Ma la
sola immagine che davvero ci portiamo dentro sono gli slip di Ronaldo.
Di recente è uscito un libro, scritto da Rinny Gremaud, si
intitola “21 Gradi costanti – Il giro del mondo attraverso i mall”. L’autrice
racconta di un suo viaggio che ha toccato diverse città, da Edmonton a Pechino,
da Dubai a Casablanca. In ognuna ha trovato il suo ipermercato, la nuova agorà
morale. Una volta entrata lì, non riusciva nemmeno più a ricordare in quale
città si trovasse, perché i paesaggi erano identici: “si azzera ogni differenza
di orario, stagione, luogo e cultura, emerge la città come paesaggio mercantile
che restringe il campo dei desideri a sistema commerciale e li materializza in
bruttezza.”
Temo insomma fortemente che nuovi cantori presto scrivano
versi tipo “Che fai Ronaldo in ciel, dimmi che fai”. E si lascino ispirare dai
suoi falli.
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