In diversi mi dicono che esponenti dell’attuale
amministrazione comunale di Cosenza, anche ai suoi massimi livelli, hanno
sostenuto che, se il Comune è in dissesto, la colpa sarebbe della giunta
Mancini. Questa affermazione è troppo strampalata, sarebbe come dire che, se
Berlusconi faceva le seratine con le OIgettine, tutto dipende dal fatto che a Giolitti piacevano le donne; e dunque io non risponderò. Però voglio cogliere
l’occasione per raccontare a quelli che negli anni Novanta non erano nati o
erano troppo giovani, sia pure nel breve spazio di un articolo, cos’era la
giunta Mancini.
Giacomo Mancini era un uomo politico esperto e navigato, ma presentava
una caratteristica che non ho riscontrato in quasi nessuno dei politici che ho
conosciuto: aveva uno spirito visionario. Così ha voluto costruire intorno a sé
una giunta decisamente “improbabile”, chiamando come assessori persone come
Pierangelo Dacrema, un economista che teorizza l’abolizione del denaro; Franco
Piperno, un fisico utopista all’epoca accusato di contiguità con l’estremismo
rivoluzionario; e chi scrive, un “indiano metropolitano” che si occupava di
poesia d’avanguardia, di teatro totale e di misticismo orientale.
La città che ci trovavamo innanzi sembrava appena uscita da
un bombardamento: Cosenza Vecchia veniva progressivamente abbandonata e
destinata a discarica spontanea, mentre la città nuova era in piena depressione
e stava divenendo tutta una periferia di Rende, dove emigravano i
professionisti, attratti dal suo modello urbanistico, e gli intellettuali,
attratti dall’università.
Noi concepimmo un modello di città diverso, che partiva dalle
persone, e da un lato puntava a restituire loro una identità perduta,
dall’altro, sul piano dei servizi e delle ambizioni, le rimetteva in dialogo
col resto del mondo. Da qui l’idea di un centro storico che rifiorisse,
partendo da una valorizzazione dei suoi tesori dimenticati (la biblioteca
nazionale, gli scavi archeologici, gli studi sui suoi filosofi, i suoi poeti, i
suoi musicisti) e un recupero progressivo dei suoi edifici, e venisse vissuto
soprattutto dai giovani, senza però espellere i poveri che nel frattempo vi
avevano trovato rifugio. Da qui anche una nuova missione per il suo centro
urbano, per corso Mazzini: pedonalizzato e rimesso a nuovo, ma anche nobilitato
e reso turisticamente attraente per la collocazione di un vero museo
all’aperto, con sculture dell’avanguardia artistica del Novecento. E poi il
recupero e la riapertura del Castello, che era un rudere. La rimessa in gioco
di tutta una fascia sociale emarginata, con la creazione di cooperative sociali
di lavoro. L’attenzione a una pedagogia nuova, con la creazione di spazi
vivibili per i piccoli, attraverso la biblioteca e la città dei ragazzi. La concezione
della cultura e dello spettacolo non come distrazione di massa ma come
opportunità di riflessione-provocazione, che contribuisse anche a rendere la città
caratterizzata, riconoscibile, a livello internazionale, e finalmente
orgogliosa della sua identità. Da qui la Casa delle Culture. E poi il
planetario. E in questo contesto il ponte affidato all’architetto famoso, a
Calatrava, doveva costituire il fiore all’occhiello, di una città finalmente
ritrovata e che dialogava alla pari con le città più vivibili e moderne.
In quegli anni questo modello diverso è stato avviato; e
molto c’era ancora da fare, non mancavano i limiti e le contraddizioni, ma, a
detta di moltissimi, la città era rinata, se non altro perché si sentiva
ritrovato un “senso”, una vocazione.
Poi, con Catizone e Perugini, gli anni della stagnazione.
L’amministrazione Occhiuto ha provato a ripartire dalla
nostra idea di città. Il problema è che ha puntato tutto sul “contenitore”,
sviluppandolo in maniera esasperata secondo le sue idee urbanistiche; e, più o
meno consapevolmente, svuotandolo dalla sua dimensione interiore, ossia dalla
ricerca della realizzazione e della felicità degli umani (tutti, non solo gli
italiani) che la abitano. Per fare un esempio: ha mantenuto in vita il Festival
delle Invasioni, ma l’ha trasformato in una parata di cantanti e musicisti di
ogni genere, inseguendo le hit parade lette sul web. Ma quella Festa era tutt’altro: era un
laboratorio internazionale di dibattito e di riflessione. Dedicato un anno alla
filosofia, un altro alla poesia, un altro alle arti e così via, portava in
città le menti più illuminate a stimolare confronto e conoscenza; e contemporaneamente
proponeva Cosenza come città che suggerisce una idea etica, ossia ribaltare il
concetto di invasione, e vedere nello straniero che arriva non il barbaro, ma
la persona che può darci il nuovo, che può arricchirci, che può liberarci dalla
nostra insostenibile solitudine. Questo era Invasioni!
Ecco. Non entro poi nel merito di come e perché oggi sono
stati spesi i soldi, non ho elementi per dirlo. In questi giorni sono tornato a
Cosenza per le vacanze natalizie. Ho fatto una passeggiata. Da San Domenico mi
sono avviato verso il ponte. Lì qualcosa mi ha indotto ad abbassare lo sguardo.
Così mi sono reso conto che avevo appena dato un calcio a un topo morto; mentre
tutt’intorno si ergevano cumuli di immondizia. E allora ho capito cosa
intendevano gli attuali amministratori, quando dicevano di voler rendere la nostra
città simile a Roma.
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