Passa ai contenuti principali

Un reportage dal regno delle donne

 

Posto che quello in cui ci troviamo non è il


migliore dei mondi possibili, a volte ci viene spontaneo domandarci: sarebbe potuta andare diversamente? Ad esempio, se non ci fosse stato quell’imprevedibile diluvio universale (sì, va beh, verosimilmente provocato dalla caduta di un grande inopportuno meteorite, ma adesso non stiamo ad approfondire) la Terra sarebbe ancora dominata dai dinosauri? Che magari, godendo di tutti i privilegi propri delle specie dominanti, si sarebbero evoluti e avrebbero trasformato i loro versi spaventosi in suoni melodiosi, ricchi di significato? E noi, in tutto ciò? Ci saremmo comunque evoluti, avremmo combattuto, o ci saremmo ritagliati uno spazio da schiavi epperò non privo di gratificazioni, ad esempio a fare i loro cagnolini?

Ora, però, tralasciando l’ipotesi dei dinosauri e guardando a quanto è accaduto dopo il diluvio, la questione più intrigante è un’altra. Avrebbero potuto essere le femmine della nostra specie a comandare, anziché i maschi? Come sarebbe andata la storia, la storia degli umani, se i nostri gruppi sociali (tutti, dalle famiglie agli Stati) fossero stati guidati dalle donne? Ci saremmo risparmiati, che so, Hiroshima, l’olocausto, il nazismo? L’eccidio degli armeni, la strage dei nativi americani, la tratta degli schiavi?

Su questa ipotesi, a differenza di quella dei dinosauri, abbiamo qualche elemento in più per pronosticare come diverso sarebbe stato il mondo. Una traccia assai interessante ce la fornisce un libro appena uscito: “II regno delle donne”, edito da Nottetempo.

L’autore, Ricardo Coler, non è un antropologo, si definisce “medico e viaggiatore”: questa circostanza, invero, anziché impoverire il suo reportage ce lo rende più avvincente, perché egli ci fa partecipare al viaggio come se noi fossimo lì con lui, mediante una dinamica di costruzione del libro propria dei narratori piuttosto che dei saggisti. E il suo viaggio è alla volta di uno degli ultimi matriarcati rimasti sulla Terra.

Quali sono le caratteristiche principali di questo matriarcato, che non appartiene a un remoto e poco certificabile passato, ma sta lì, adesso, in un posto che si può raggiungere e constatare di persona?

Si tratta della comunità dei Mosuo, conta 25000 abitanti disseminati in alcuni villaggi racchiusi in una zona bellissima, nel Tibet, intorno a un lago. Zona fuori mano e difficilmente raggiungibile: Carver per visitarla ha dovuto attraversare strade di montagna non asfaltate, con splendida e minacciosa vista a picco sui burroni. E questa loro marginalità li ha preservati dall’omologazione con il mondo maggioritario; anche se in realtà ci hanno provato, in particolare i cinesi che detengono il potere politico su questi territori. Ma si è trattato di tentativi anche un po’ comici: in particolare la rivoluzione culturale di Mao ha cercato di “rieducare” queste persone, convincendole – con le buone o con le cattive – a lasciar perdere i loro costumi e a sposarsi (il matrimonio come lo intendiamo noi non è considerato dai Mosuo). Ma loro, imperterrite, appena le guardie rosse hanno girato l’angolo sono tornate alla vita di sempre.

In cosa consiste, questa vita? Intanto c’è una distribuzione assai equilibrata di incombenze e responsabilità, fastidi e onori. Gli uomini sono dediti solo ai lavori pesanti (tipo l’edilizia) se e quando ce n’è bisogno; mentre poi possono oziare, dedicarsi ai loro hobby, perché al resto pensano le donne. Che sono le assolute protagoniste della famiglia, il nucleo della società, quello che davvero conta. La matriarca controlla, assegna i compiti, coordina, decide. Curiosamente agli uomini viene però delegato il potere “politico”: sono loro i capi- villaggio, hanno la rappresentanza istituzionale della comunità. Ma per loro questa cosa non è così importante; quello che conta è la vita quotidiana, e la ricerca della felicità.

I Mosuo organizzano la vita intorno alla matriarca: i suoi fratelli e i suoi figli, come le sorelle minori e le figlie, rimangono sempre a vivere con lei. I partner invece vivono nelle loro rispettive famiglie; e questo sia che ci si unisca per rapporti occasionali, sia per rapporti stabili, che possono durare anche tutta una vita. I figli vivono con la madre, spesso non sanno nemmeno chi è il loro padre, e il ruolo paterno viene esplicato dai fratelli della madre. La sessualità è assai più libera che nel patriarcato. Le donne adulte all’interno della casa familiare hanno una loro stanza privata, e lì ricevono l’amante che hanno scelto, che può essere stabile o occasionale. In ogni caso, all’alba egli dovrà raggiungere la sua casa; prima che il resto della famiglia si svegli e si metta all’opera, perché, appunto, allora dovrà essere rientrato nell’abitazione della sua famiglia. L’accoppiamento, peraltro, si determina al termine di un gioco di corteggiamenti in cui uomo e donna dovranno manifestare, con dei segnali convenzionali, la loro volontà di incontrarsi la sera, sempre e soltanto a casa di lei.

La sensazione che ha l’autore, e che trasmette al lettore, è che quelle venticinquemila persone siano un po’ più felici di noi. Non tanto per la libertà dei costumi, quanto perché la loro comunità è pressoché priva di violenza. E questo è determinato dall’assenza di quella idea di proprietà del corpo femminile, che tanti lutti genera nelle nostre contrade.

Allora? Probabilmente non si tratta di schierarsi per il matriarcato in alternativa al patriarcato. Ma questo libro ci lascia un filo di speranza: se, alla fine di questo lungo secolare cammino, le donne riusciranno finalmente, nella nostra società, a conquistare un ruolo davvero pari a quello dell’uomo nella guida dei governi e nella determinazione delle scelte civili e sociali, beh, probabilmente saremo un po’ meno violenti, e magari più disponibili ad ascoltare noi stessi, i nostri desideri, le nostre vocazioni.

                                                                               

 

Commenti

Post popolari in questo blog

Chi preferisci fra Macron e Micron?

Grazie agli sviluppi dell’informatica, oggi le grandi trasmissioni televisive sono nelle mie mani. Sono io a “nominarli”, i concorrenti; a decidere chi canta meglio, chi balla meglio, chi deve andare in finale. Posso così appassionarmi a votare la formazione migliore, e persino la finale del festival di Sanremo viene decisa dal mio voto. Peccato però che nessuno si sogni di farmi decidere se voglio che nel mio paese sia riconosciuto il diritto a scegliere se essere costretto a restare in vita appeso alle macchine o possa optare per morire serenamente. Se voglio consentire a chi lo desidera di coltivarsi una piantina di marijuana sul proprio terrazzo, o se preferisco che a gestire la vendita delle droghe leggere sia la mafia. Se voglio o meno che Alitalia venga salvata coi soldi dello Stato. Se sono d’accordo che i debiti di Monte dei Paschi di Siena vengano pagati con le tasse che versiamo. No, su queste cose non mi fanno decidere niente, anche se la tecnologia consentirebbe di ef...

L'Ultimo libro di carta

  Due storie si incrociano. La prima è quella di Aurelio e Lella. La seconda narra di Giulio Brogi, un professore di filosofia che insegna in un liceo di una Milano di questi anni immersa nel cicaleccio dei telefonini, avvolta in una nebbia non più atmosferica ma rumorosa e nevrotica nelle sue solitudini. Aurelio e Lella sono due ventenni all’inizio degli anni Quaranta, in un paese di mare del Sud dell’Italia, innamorati. Lui partecipa alla seconda guerra mondiale, viene mandato in Grecia nella sventurata spedizione italiana, poi deportato. Lei è convinta che lui sia morto, e si rassegna a sposare un altro. Frattanto Giulio scopre che è malato di Alzheimer, e la sua mente progressivamente deraglia. Intanto la vicenda di Aurelio e Lella scorre, fra private illusioni e pubblici inganni attraversa il secondo dopoguerra, la nuova emigrazione italiana, le fabbriche del Nord. Mentre la storia italiana corre verso il miracolo economico, coi suoi sogni piccolo-borghesi e le sue contr...
Quella volta che Antonello, Nello, Gianni… E poi quella volta Antonello, Nello, Gianni, Massimo, Larry vennero a trovarci, fra le nostre cataste di Oscar Mondadori e i nostri fogli dattiloscritti, fra le nostre carte appallottolate e i nostri aquiloni, lì, nella sede del Laboratorio di Poesia di Cosenza. Qualcuno di  noi era preoccupato, “Quelli sono dei pericolosi anarchici – diceva Pasquale – ci spaccheranno tutto”. Ma Raffaele, il più timido di noi ma anche il più mentalmente spericolato, aveva insistito: Dai, diceva, questi qui ci porteranno una ventata di aria nuova, ne abbiamo bisogno, non possiamo stare solo a trastullarci di parole pesanti, di Montale e di Sanguineti. E così io mi arrischiai: va bene, proviamo, facciamoli venire. La loro entrata fu decisamente spettacolare. Gianni era una sorta di maschera senza travestimenti della commedia dell’arte, parlava e insieme cantava, tratteggiava e intanto danzava. Nello sembrava il leader, un po’ stratega un po’ guappo....