Passa ai contenuti principali

Milano ai tempi del corona



Ho sempre amato la fantascienza. Non tanto, per la verità, quella “tecnologica”. E ancor meno i filmetti – anche se riconosco loro un certo fascino – di supereroi che con armi fulminanti combattono contro il male. Di più sono attratto dalla fantascienza “sociologica”; ossia dalle ipotesi più o meno fantastiche su come le nostre organizzazioni sociali evolveranno nel tempo, davanti a sollecitazioni oggi imprevedibili. Ma mi attirano anche le narrazioni che includono spettri, incubi collettivi: soltanto nella misura in cui ipotizzano reazioni interiori, irrazionali quanto verosimili, che più che inventare ci dicono quel che sta scritto nella nostra mente da sempre, e che noi cerchiamo, più o meno disperatamente, di nascondere, di seppellire nell’inconscio, di occultare.
Milano in questi giorni somiglia a un film di fantascienza, del genere “sopravvissuti”. C’è poca gente che gira per le strade, la metro va avanti e indietro semivuota, nel suo andirivieni ora nudo e quindi folle. Le scuole sono chiuse, i cinema e i teatri uguale; le chiese sono aperte ma solo alla preghiera individuale, le celebrazioni sono sospese. I funerali devono svolgersi con i soli familiari stretti. Davanti agli uffici c’è qualche impiegato che raccomanda di entrare in due- tre per volta, e gli altri devono aspettare fuori, persino al freddo (che è cosa inconcepibile in una città che tiene i termosifoni sempre accesi a temperature tropicali). I bar, dopo una protesta degli esercenti, possono stare aperti, ma bisogna consumare solo ai tavoli, per non accalcarsi al bancone. E i pochi passanti girano con le mascherine: roba che fino a un mese fa portavano solo i giapponesi, e tu ridevi per la loro ossessione di non contaminarsi con l’Occidente.
Devo dire che, quando ho appreso delle misure decise dal governo, temevo episodi di follia collettiva. Perché questa città vive sulla nevrosi, si ciba di corsa quotidiana e ossessiva, sempre: nel lavoro come nel tempo libero, nel business come nella cultura. E allora pensavo: come faranno a resistere? Costretti a rallentare, a stare a casa, vedrai che in tanti daranno i numeri. Invece sbagliavo: a questa crisi Milano sta reagendo in maniera equilibrata. Però le ragioni che mi do sono due, e temo entrambe valide. La prima è che Milano ha comunque un senso civico forte e di vecchia data, e dunque davanti alle emergenze che la storia le pone sa reagire con compostezza.
Bene. Ma c’è una seconda ragione. È che in questo tempo dell’homo tecnologicus, del sapiens post-umano con telefonino incorporato, egli in fondo ama stare chiuso, non muoversi, non avere contatti se non attraverso la chat, mediati dallo schermo rassicurante del suo smartphone. E dunque in fondo è contento così: lavorare a casa, fare le scorte di cibo per due mesi e non uscire mai, ricorrere al telelavoro, zappingare da un programma all’altro senza mai davvero partecipare a niente. E persino le nuove misure, i consigli di salutarsi senza più darsi la mano, non avvicinarsi mai a meno di un metro di distanza, vanno bene in questa società in cui i corpi sono inquietanti, le loro repliche digitali sono assai più comode, e persino la sessualità è destinata a recedere, in attesa di essere sostituita da surrogati robotici a prova di virus.
Temo, insomma, che il coronavirus ha soltanto affrettato un futuro nel quale stiamo rotolando con allegra incoscienza.
PS. A proposito. Qualche giorno fa ho letto l’ordinanza della neo-presidente della Regione Calabria. Raccomandava a coloro che arrivavano in Calabria dalle zone a rischio di mettersi in contatto con l’autorità sanitaria. Insomma, se avessi deciso di tornare in Calabria, a Lamezia non avrei trovato alcun controllo, ma avrei dovuto telefonare all’Asl. All’Asl? Ma se non rispondono mai!


Commenti

Post popolari in questo blog

Quella volta che Antonello, Nello, Gianni… E poi quella volta Antonello, Nello, Gianni, Massimo, Larry vennero a trovarci, fra le nostre cataste di Oscar Mondadori e i nostri fogli dattiloscritti, fra le nostre carte appallottolate e i nostri aquiloni, lì, nella sede del Laboratorio di Poesia di Cosenza. Qualcuno di  noi era preoccupato, “Quelli sono dei pericolosi anarchici – diceva Pasquale – ci spaccheranno tutto”. Ma Raffaele, il più timido di noi ma anche il più mentalmente spericolato, aveva insistito: Dai, diceva, questi qui ci porteranno una ventata di aria nuova, ne abbiamo bisogno, non possiamo stare solo a trastullarci di parole pesanti, di Montale e di Sanguineti. E così io mi arrischiai: va bene, proviamo, facciamoli venire. La loro entrata fu decisamente spettacolare. Gianni era una sorta di maschera senza travestimenti della commedia dell’arte, parlava e insieme cantava, tratteggiava e intanto danzava. Nello sembrava il leader, un po’ stratega un po’ guappo....

Chi preferisci fra Macron e Micron?

Grazie agli sviluppi dell’informatica, oggi le grandi trasmissioni televisive sono nelle mie mani. Sono io a “nominarli”, i concorrenti; a decidere chi canta meglio, chi balla meglio, chi deve andare in finale. Posso così appassionarmi a votare la formazione migliore, e persino la finale del festival di Sanremo viene decisa dal mio voto. Peccato però che nessuno si sogni di farmi decidere se voglio che nel mio paese sia riconosciuto il diritto a scegliere se essere costretto a restare in vita appeso alle macchine o possa optare per morire serenamente. Se voglio consentire a chi lo desidera di coltivarsi una piantina di marijuana sul proprio terrazzo, o se preferisco che a gestire la vendita delle droghe leggere sia la mafia. Se voglio o meno che Alitalia venga salvata coi soldi dello Stato. Se sono d’accordo che i debiti di Monte dei Paschi di Siena vengano pagati con le tasse che versiamo. No, su queste cose non mi fanno decidere niente, anche se la tecnologia consentirebbe di ef...

Il papa e la sinistra

Dai migranti che vengono considerati come fastidiose cavallette di cui liberarsi con l’insetticida, ai poveri che molti sindaci trattano come una impresentabile bruttura che danneggia l’immagine del centro storico; dalle donne che sono tornate proprietà privata del maschio da brutalizzare in roghi casalinghi quando si ribellano, ai disoccupati che ci fanno aumentare le tasse con la loro assurda pretesa di ottenere dallo Stato sussidi e cure mediche. In un ventunesimo secolo che in fatto di diritti sociali segna un arretramento rispetto al quale il Novecento riluce come un antico tempo felice, l’unica voce che in Italia si sta ergendo forte a difesa degli ultimi e dei diseredati della Terra è quella del papa. A sentirlo parlare, i vari Renzi e D’Alema, Franceschini e Bersani, Letta e Gentiloni lì per lì hanno gioito: se ci sta il papa a fare la sinistra, si son detti, noi possiamo farci gli affari nostri in santa pace. Il guaio per loro è che questo papa prende maledettamente su...