Se n’è
andato Giovanni Franzoni, uno di quei sacerdoti che a Roma, come Enzo Mazzi a
Firenze, negli anni Settanta propugnarono un modo diverso di fare chiesa,
imperniandola non su burocratiche gerarchie ma sugli ultimi, sui diseredati
della Terra, come aveva insegnato qualcuno venti secoli fa e come da tempo non
accadeva più. A cominciare dalla messa, che decisero di intendere in altro
modo, non più come rito gerarchico ma come assemblea. E per questo furono
sospesi “a divinis”, e poi ridotti allo stato laicale.
Oggi il modo
migliore di ricordarlo è forse quello di riflettere sulle parole che lui ha
scritto sulla morte: “Molti ancora si
rappresentano la morte come un evento tremendo nelle mani di un Dio creatore e
signore, giustiziere e punitore di quanti non riconoscono la sua sovranità
assoluta. La morte è rappresentata come un essere estraneo, cavalcante un
destriero scheletrico e agitante una falce con la quale uccide i viventi e li
sottopone al Dio giudice; ma questa visione mitica della morte viene oggi da
molti onestamente rifiutata, a favore, invece, di una rappresentazione del
morire come un fatto insito, fin dalla nascita del vivente, nella stessa sua
origine e nella sua crescita”.
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