Chiamare il proprio nome:
la poesia di Franco Dionesalvi
“Ci sono parole che scavano fossati, / alzano muri,
rinchiudono in prigioni”; i versi iniziali dell’ultima poesia della
raccolta Via delle nuvole (Varsavia, 2007), intitolata “La responsabilità”,
introduce il lettore dentro il cosmo poetico di Franco Dionesalvi, poeta
calabrese, uno dei redattori della mitica rivista letteraria “Inonija” e
redattore della attuale “Capoverso”. La responsabilità è nel “nome”, dice il
poeta calabrese: “chiama il tuo nome, / e ascoltalo parlare”.
Credo sia questa la chiave per entrare dentro la poesia di
Dionesalvi. Ma che cosa significa il nome? Risponderò citando un critico
inglese, Cleanth Brooks, il quale denuncia l’eresia invalsa nelle scritture poetiche
dagli anni Sessanta in poi della “parafrasi”, intendendo ribadire il concetto
secondo cui la poesia non conosce “sinonimi”; la metafora per il critico
inglese non è traducibile, perché una poesia è una esperienza piuttosto che un
significato, una complessa unità che può essere indicata così: una esperienza
significante. Nella poesia di Dionesalvi i salti logici, gli spostamenti di
significato da strofa a strofa o tra tempi verbali che oscillano dal passato
remoto al presente, sono tutti espedienti tesi ad ordinare gli impulsi timbrici
e ritmici entro una cornice che altro non è che un equilibrio di tensioni;
così, l’ordine diviene esso stesso macrometafora. La poesia di Dionesalvi
invera quell’assioma di Eliot quando scrisse che (Selected essays, 1932):
“genuine poetry can communicate before it is understood”. La poesia di Via
delle nuvole non può essere adeguatamente compresa se non chiariamo subito
un problema che noi indichiamo facendo riferimento al fenomeno del riflusso e
del riflesso della poesia “modernista” del primo Novecento (penso ad un poeta
paradigmatico come Eliot) dentro l’alveo della tradizione italiana così come si
è venuta a consolidare dopo la parentesi dello sperimentalismo: “L’anima degli
oggetti”, la “topicality”, i minimalia, sono la fusione
dell’antico con il nuovo, del tempo passato con il tempo presente, esse
rivelano la continuità dell’esperienza della vita quotidiana come di quella
veicolata in poesia. Questo modo di intendere la composizione poetica è
chiarissimo in alcuni componimenti come in quello intitolato “Sotto lo
sguardo”: “Un tavolino / non si può apparecchiare e sparecchiare /
soprattutto non si deve pulire. / Ha residui magici / polvere santa /
giocattolini nascosti / testamenti dell’altro emisfero / nelle pieghe della sua
corteccia”; dove antitesi e similitudini, spesso ben miscelate in un buon
paradosso, sono l’equivalente, in poesia, del tempo e di ciò che esula dal
tempo. Quella concrezione di esperienze minimali (gravide di temporalità) si
traducono in poesia come ingressi nella memoria tramite le linee laterali e
secondarie: “Io ti guidavo / sull’atlante ti spiegavo i luoghi / davo un
nome ai calciatori… / Ora mi trovi gli oggetti smarriti / mi sveli il luogo /
in cui la sera prima ho parcheggiato…”. Da Eliot in poi abbiamo imparato
che l’allegoria non è affatto un cruciverba di parole crociate ma è l’essenza
stessa della composizione poetica; anche quando Dionesalvi mima la poesia della
memoria (tipica dei neo-elegiaci) o la poesia degli oggetti (tipica del minimalismo
contemporaneo), il risultato finale è l’allegoria della condizione umana, come
nelle poesie intitolate “Zia Maria” e in “Il viandante del presepe” (“Bambino
poi bussavo alla cucina / ti vestivi da ostessa / mi raccontavi la romanza. / E
io mangio, zia, ma intanto dimmi / perché invece non ti sei sposata?”;
“L’arrotino dei sogni / licenziò la storia del ragno tentacolare / che maestoso
incombeva dal cielo / e fulminava di scorreggi / ad ogni fragoroso respiro / e
venne in sonno a te”. Anche l’impiego dell’ironia non è soltanto proiezione
dello sguardo del soggetto e né è mai disgiunto dalla visione dell’oggetto da
costruire e dalla serietà del discorso poetico: “A Dio piace la poesia; /
non la considera alla stregua / della teologia della metafisica della
teosofia…” ; “Le mie poesie più belle come dei mandala / dopo averle
rilette le ho strappate / le ho offerte al tempo e all’emozione. / Ma dovete
credermi sulla parola: / le ho scritte, lo giuro”. Ironia e autoironia
costituiscono le eccellenze della composizione poetica, sono il tessuto stesso
delle immagini e della struttura verbale come nella lunga composizione “Canto
d’amore per Madonna Ciccone”, che riecheggia l’eliotiano “The love song of J.
Alfred Prufrock”, exemplum ineguagliabile di poesia dal timbro autoironico al
di sotto della linea del Garigliano della poesia italiana contemporanea; o in
altre brevi composizioni dove il passo breve della quartina riesce mirabilmente
bene, come nella poesia intitolata “Capelli”: “Valeria e Valeria la bionda e
la bruna / l’un l’altra cercavo passione e fortuna / Valeria e Valeria la bruna
e la bionda / le carte mischiavo la vita è rotonda”.
Uno sviluppo stilistico inequivoco che ha condotto il poeta
cosentino dalla prima pubblicazione La fragola e il pianoforte (1986),
passando per L’esistenza dei piccoli animali (1994) fino a Via delle
nuvole, la sua ultima encomiabile prova.
Giorgio Linguaglossa
In CAPOVERSO, n. 26, dicembre 2013
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