SPECIALE
Franco Dionesalvi
Poeti e popoli migranti
Questo “speciale” vuole essere una
riflessione a più voci sulle politiche che gli attuali governi, in Italia, in
alcuni paesi europei, negli Stati Uniti stanno sviluppando in tema di
migrazioni; e segnatamente sullo sfrenato incitamento verso i sentimenti più
bruti e irrazionali che albergano un po’ dentro tutti noi. E che tuttavia
andrebbero sviscerati e curati, piuttosto che elevati a decalogo di
comportamento. Non si tratta certo, storicamente, di una novità assoluta;
sempre l’appello alle guerre, e talvolta l’appello al voto, si è poggiato su
demenziali cacce all’untore o su artificiose costruzioni di un nemico cui
addebitare tutti i nostri fallimenti e su cui scaricare tutte le nostre
inadeguatezze. Più anomalo è far questo in tempo di pace e in un paese
democratico ed evoluto.
Sì che una forte preoccupazione, e una
sensibilità a dover reagire, è avvertita anche dai poeti; che sentono che oggi
è necessario contrastare quegli squilli di tromba con la voce, ultimativa e
insieme lieve, della poesia.
Gli stili, le forme, le parole sono assai
diverse, ed è giusto così. Insolito e significativo invece è il ritrovarsi in
una urgenza condivisa, in una motivazione etica che i presenti, e sicuramente
molti altri, percepiscono come doverosa e necessaria.
Ma in fondo la condizione
dell’irregolare, che intraprende un viaggio periglioso per mari sapendo che
ovunque sarà esule, e che la posta in gioco che mette in palio non può che
essere la sua vita, è propriamente e insuperabilmente quella del poeta.
Mariella Bettarini
SALVIAMOCI DA SALVINI
(acrostico)
Salvini – Salvini…
E’ l’ Italia che
(Ahinoi – ahimè) indietreggia
Lividamente e infine
appare il
Vergognoso – crudele
– il persino
Incredibile ritorno
di razzismo –
Analfabetismo – cinismo – populismo - di
Mendace e
(ahinoi) di
Obbrobrioso bieco
fascismo
Contrario ad
uguaglianza – giustizia – libertà -
Indispensabili
valori da vivere senza
Dovere ricordarli –
senza mai
Ansia se non per la
loro perdita.
Salviamoci –
soprattutto salviamo loro dal
rifiuto d’ogni
Accoglienza – d’ogni
umano
Legame – d’ogni
possibile solidarietà con gli ancor
Vivi migranti - con i fratelli di colore - gli
Infelici senza speranza- con i
Nullatenenti - i senzapatria – con l’
Infanzia senza famiglia – stremata – disperata.
(settembre 2018)
Donatella Bisutti
la prua della nave affondava nelle onde
azzurro-purpuree
mediterranee
affondava fra le onde sanguinanti nell’ultimo sole
avanzando fra i ventri gonfi degli annegati
nel cercare a nuoto una riva
gli oscuri ventri gonfi galleggianti rivolti a quel
sole
in un’ultima forsennata preghiera
che fiorivano le alghe sulle labbra illividite.
Maurizio Cucchi
La tragedia
di Marcinelle insegna
che non
bisogna emigrare.
Così disse,
agghiacciante,
essendo
egli ministro
nel tempo
post umano in cui
si è
politici per autocertificazione.
E il socio:
O cambiate
ministro
O cambiate
paese.
Tranquillo
ministro!
Ci stiamo
già pensando.
Anna Maria Curci
Penisolamento
(farsa dello stivale in due quartine)
(farsa dello stivale in due quartine)
A dispensare fole al Bel Paese
tocchi di malepeggio a cacio e caso
si è aperta sagra di urlatori di pancia
charcutier di rigaglie manovrate.
tocchi di malepeggio a cacio e caso
si è aperta sagra di urlatori di pancia
charcutier di rigaglie manovrate.
Indicono
tornei di nerboruta
mediocriolipolisi nelle piazze:
i più splendidi nel penisolarsi
potranno a testa vuota appisolarsi.
mediocriolipolisi nelle piazze:
i più splendidi nel penisolarsi
potranno a testa vuota appisolarsi.
23 giugno 2018
Submersa
Subumana
subentra suburra
subissa
subappalta
subordina
subappalta
subordina
Sublitorale
subisce subacqueo subisso
sub
judice
subliminale
subornazione
subliminale
subornazione
1° luglio 2018
Controrepliche
I
Era
ambulante nonno,
il padre
di mio padre.
Con le pezze di stoffa
traversava
i calanchi.
Serbo la
discendenza
come viva
memoria
sudato
testimone
della
lampada accesa.
28 luglio 2018
Controrepliche
II
Dal
dicastero di distorte case
con sua
trombetta chiama Barbariccia,
espelle
verde bile e i suoi cascami.
L’inferno
è qui, confermerebbe Dante.
3 agosto 2018
Piero Gallo
Namèl, dicevano,
ha i colori del sud,
quando giù al porto
sistemavano alla meglio
i figli del naufragio.
Arrivato al Paese
aveva perso il respiro,
come i pesci in una polla infetta,
aveva in grembo
l’acqua dei tiranni
e il viso cancellato dalla sete.
San Giuseppe senza la Madonna,
in processione
per strade alabardate,
per Namèl, dicevano,
non si fanno preci.
Eppure era un fratello della terra,
con in tasca la foto del suo amore,
perduto a Lampedusa.
Dalla riva una forma barbuta
benedice solo eroi.
Giuseppe Langella
ESODI
Non si son dati neppure la pena
di disossarvi o di tagliarvi a tranci,
prima di rovesciarvi nella stiva.
Cara grazia! Piegate, orsù, la schiena
allegri, ché non vi hanno appesi ai ganci
e forse arriverete vivi a riva.
Qualora poi la barca si rovesci,
tranquilli: non andrete in bocca ai pesci,
ma come tanti bronzi di Riace,
morti affogati, troverete pace
in un museo del mare, in un acquario
dietro un
cristallo, postumo sacrario.
Questa poesia è tratta da Luci di posizione (a cura di Giuseppe
Langella), Mursia, 2017
Giorgio
Linguaglossa
Stamane ho scritto questo pensiero per Facebook e ci ho messo l’effigie di
Salvini in orbace con tanto di medaglie appuntate sul petto. Penso che riguardi
anche la poesia. Chi scrive parole non può non avvertire lo sfrigolio degli
zolfanelli, il disgustoso odore di zolfo misto ad un sentore di fogna per il
clima torbido e sfilacciato che si respira in Italia da due mesi a questa
parte. I topi sono usciti dalla fogna e adesso ballano e cantano… la Musa, lo
sappiamo, è una dea molto timida, visto l’andazzo che si respira in questo
paese mi ha dichiarato che se ne starà per un bel po’ in disparte, rinuncerà ad
apparire in pubblico, lascia il palco ai nuovi visigoti…
Vi è sottesa, nel nuovo fascismo, l'ideologia
triviale della ricerca della felicità della razza, imbastardita dalle rubriche
dei giornali femminili e dagli spot pubblicitari del capo della Lega. Si dice
che è un obbligo per gli uomini della 3a Repubblica fare pulizia dei diversi
(omosessuali, rom, africani, clandestini). Affinché vi sia l'infelicità comune
al massimo grado, si grida per questa ideologia della morte. Anche la ricerca della
felicità della razza è diventato un topos triviale, una triviale ideologia in
auge nelle telenovelle del nostro tempo mediatico.
Così stando le cose, in questa questità, non
si capisce nulla del nostro tempo sovranista e fondamentalista se non esaminiamo
attentamente la volgarità di una tale ideologia neomilitarista e
fondamentalista, che non viene mai detta in modo franco ma evocata per
sottintesi, in modi ambigui, sibillini; viene caldeggiato un nuovo
fondamentalismo, e anche un «servizio militare per i giovani» quale via maestra
verso la felicità degli uomini forti, viene caldeggiato il nuovo pauperismo per
tutti, la «decrescita felice», lo stipendio per tutti. In una parola: il
Bengodi, la felicità per tutti, il paradiso degli sciocchi.
Ci dica il Ministro degli Interni (quello
della «mala vita»), invece di starsene al mare a Milano Marittima e in
Versilia, quali provvedimenti intende prendere verso la delinquenza della Terra
dei fuochi che condanna milioni di persone a morte certa per cancro.
Se voi togliete il fondamento di mezzo, cosa
resta? Se voi togliete la zattera su cui poggia la significazione che cosa
resta? – Il fondamento non c’è, è inutile andarlo a cercare nella memoria, nel
passato, nel futuro, sulla luna… non c’è, e quindi è meglio andare ad
acchiappare farfalle, è più convincente. Ecco l'acchiappafarfalle del nuovo
fascismo: Salvini.
11-12 agosto 2018
Giulia Niccolai
Più che in qualsiasi altra regione,
il tono di ciò che continuano
a chiedersi le tortore maremmane
all’alba e al tramonto è
“E a des so? E a des so?
E a des so?”
Angoscia nostra o loro?
*
Questo frisbee lo scrissi e lo pubblicai
tre anni fa.
L’anno scorso non sono potuta tornare
in Maremma, ma quest’anno le tortore,
hanno aggiunto una toccante risposta
alla loro inconsapevole domanda:
“...Ti acca rezzo, ti acca rezzo,
ti acca rezzo”.
Guido Oldani
MALMEDITERRANEO
ai Realisti Terminali
ed il
moscone chiusolo in cucina,
gira
impazzito dentro nella stanza
sbattendo
contro i vetri con la testa,
nessuno lo
soccorre quanto basta.
è quel che
accade a molte mezzenavi
che vanno per
il mare mai sbarcando
poichè non
gli si schiude una finestra
ma il nostro
cuore è sempre più a disagio,
perché la
crudeltà non fa palestra.
Gerardo Pedicini
Nell’editoriale del n. 35 della rivista Capoverso Franco Dionesalvi si interroga
sul ruolo e la funzione del poeta nella nostra società. E, citando Salvatore
Quasimodo, lo invita di uscire dal “drammatico compiacimento” di restarsene
chiuso nella propria torre d’avorio, dove volontariamente si è rinchiuso per
affrontare, nella sua totalità, le problematiche che rivestono la sua intera
personalità, soprattutto quelle che ineriscono alla sua sfera politica. Più
semplice a dirsi che a farsi. La divisione tra sfera privata e sfera pubblica
si è talmente radicata nella coscienza dei letterati che è difficile
rimuoverla. È diventata un terreno sdrucciolevole difficilmente conciliabile
con la sfera emozionale. Ciò non
significa abbandonare l’impresa, né che non ci siano stati tentativi di
abbattere le cortine di divisione. Anzi bisogna partire proprio da quest’ultime
per trovare nuovi sbocchi percorribili. Dionesalvi cita le indicazioni
programmatiche del Surrealismo e della neo-avanguardia. Non starò qui a
precisare il pensiero politico dei
Surrealisti, né analizzare la posizione del Gruppo
63. Entrambi, anche se con opposti convincimenti, hanno cercato di dare uno
sbocco effettivo al problema, anche se bisogna riconoscere che le indicazioni
emerse, al di là delle singole affermazioni, si sono fermate però sul piano
dell’enunciazione o, tutt’al più, si sono mosse all’interno di una concezione
che, per quanto innovativa, era diretta nei Surrealisti a rinnovare
dall’interno le procedure creative e nella neo-avanguardia a occupare gli spazi
della comunicazione letteraria attraverso un’opera di smantellamento del
linguaggio tradizionale. Né ha prodotto esiti diversi la stagione del
Sessantotto. La sua carica di rinnovamento (docet
lo slogan la fantasia al potere)
si è fermata all’enunciazione, provocando soltanto sussulti. E non poteva
essere diversamente. Né esiti diversi ha prodotto l’illusione di riuscire a
elaborare un’arte popolare, proprio dei popartisti
americani. Invece di porsi come coscienza
critica essi si sono fermati a sacralizzare i prodotti di largo consumo della
società di massa. Su un piano completamente diverso il programma dell’internazionale situazionista di Debord. Le implicazioni programmatiche e le strette procedure
pratiche alla fine però ne hanno determinato l’estinzione. Quali ne siano le
cause il divario tra pensiero e azione è diventato abissale, a tutto
vantaggio del potere dei media che
assorbono gran parte della comunicazione tramite i social e i network. Il
che se, da un lato, ne sottolinea l’importanza, dall’altra la riduce allo
specchio deformante di una società che naviga in sé stessa per specchiarsi nei
propri desideri. Tutti si autodefiniscono artisti e nessuno è artista. Come
superare “questa designificazione del reale”? Una possibilità c’è e non è
sfuggita all’attenta analisi di Mario Perniola. Nel saggio Simulacri del potere e potere dei simulacri (Ágalma, n. 20-21, 2010), egli individua nella differenza tra simulacro e simbolo il nodo principale. Il simbolo, egli afferma, “attinge il
proprio potere dalla religione, dal mito, dalla fede”, il simulacro “dallo
scetticismo, dalla chiusura dell’orizzonte metafisico, dalla derealizzazione
sociale”. Questa differenza “apre alla cultura delle possibilità d’intervento
assolutamente nuove e incredibilmente ampie: la pone dinanzi a un compito che essa
non ha mai affrontato e che consiste nel rovesciare i simulacri del potere nel
potere dei simulacri…Il punto di partenza di questo processo è proprio il senso
di inutilità che l’intellettuale, il letterato o l’artista prova oggi
quotidianamente nella società civile, nell’università, nel partito. Questa
inutilità non va rimossa…, al contrario essa deve essere estesa e
generalizzata” in quanto “la desacralizzazione, la demitizzazione e la
secolarizzazione della realtà e della cultura vanno insieme: esse segnano la
fine di un atteggiamento devozionale verso la storia e verso la conoscenza di
origine metafisico-teologico. Se dunque una cosa vale l’altra, se esiste
un’equivalenza generale di destini, l’esito è un nichilismo incapace di scelta
e di determinazione?” L’invito della
rivista Capoverso giunge “a
proposito, ci indica con chiarezza di non fuggire davanti ai problemi della
società, al contrario di assumerli come soglia tematica per il proprio
investimento creativo. Il popolo dei migranti
è uno di questi. Quale rapporto e di che tipo occorre istituire? Se ci si
muove sul piano del pietismo, del sentimentalismo, ecc. finiremmo per
considerarlo una figura simbolo dove
il noi-loro, di per sé, si porrebbe
come esclusione, come separazione, come netta divisione di partenza. Questo è
un ostacolo da rimuovere: porta con sé lo scarto di cui ci dobbiamo liberare.
L’accoglienza non deve essere giustificata dal bisogno di alcune industrie del
nord che, sebbene legate alla Lega,
dichiarano di avere necessità di assumere forze
lavoro specializzate e non da impiegare nelle loro industrie, né dagli
agrari meridionali che, attraverso il caporalato, assumono a basso costo
migliaia di profughi per lavori stagionali. E allora da dove partire?
Dalla comprensione del fenomeno migratorio da un punto di vista storico, come
ci suggerisce Donatella Di Cesare nel suo Stranieri
residenti. Essa considera questa “umanità alla deriva”, questa “onda
anomala”, questo “tsunami” come un’occasione per ridiscutere alcuni fondamenti
che sono alla base del diritto degli Stati moderni e comprendere che le
posizioni di Grozio, di Hobbes, di Kant non sono divinazioni esclusive, sono il
frutto della realtà storica del loro tempo. A tal proposito occorre ricordare
la bolla Inter coetera divinae di papa
Alessandro VI in cui il pontefice sancì il pieno potere ai re di Castiglia
sulle terre scoperte da Cristoforo Colombo. Da allora la libertà di circolazione
naturale ha subito una drastica limitazione al fine di preservare e
giustificare il diritto del commercio mondiale. Per uscire da questi confini,
occorre, come suggerisce la Di Cesare, “una politica che prenda le mosse dallo
straniero inteso come fondamento e criterio della comunità”. Giusto
suggerimento che ci consentirebbe di superare ogni opposizione, ogni sentimento
di odio che domina nel nostro orizzonte culturale. Un odio “coltivato, nutrito,
alimentato” che circola incontrastato nelle affermazioni di una frangia dei
politici nostrani volto a giustificare e ad erigere steccati tra nativi e migranti.
Chi, per primo, si è assunto questo compito di abbattere questa concezione di
netta separazione tra noi-loro è
stata l’artista greca Kalliopi Lemos.
Nel 2009 eresse di fronte alla Porta di
Brandeburgo l’installazione At
Crossroads. Nove barche di legno sistemate una su l’altra su una
impalcatura per formare una torre alta 13 metri, si ponevano come manifesto documento della anomala
situazione contemporanea. Da un lato la porta berlinese rimandava la memoria al
passato, dall’altro i barconi, abbandonati sulla costa greca dai rifugiati
provenienti dal Medio Oriente, si ponevano come ferita da rimarginare
sollevando nel nostro intimo questioni di identità, di migrazione e di
demarcazione. Il nudo monumento della
Kalliopi Lemos, insomma, è stato il primo segno di una svolta radicale. Altre
si sono succedute sempre da parte dell’artista, e non meno importanti sempre
sullo stesso problema o su problemi a esso confinante. È possibile che ciò
avvenga anche nella produzione poetica? Difficile ma non impossibile. Certo,
per gli artisti è più difficile trovare le forme che possano ben corrispondere
al problema. Di necessità occorre liberarci da ogni caduta in metafore o in
simbolici attraversamenti. Le parole devono essere sfrondate da qualsiasi orpello.
Occorre cioè rifarsi al dato
oggettivo, non avere la pretesa di condirlo. La nuda realtà è più forte di qualsiasi procedimento metaforico. Ha in
sé la forza e la determinazione dell’idea. Ciò che conta è la “tragicità della
finitezza” come suggeriva Carlo Raimondo
Michelstaedter, evitando di rinchiudersi negli
“ornamenti dell’oscurità”, con l’abbandonare “quelle illusioni di sicurezza e di
conforto che avviluppano chi vive abbagliato dalle illusioni create dal potere,
dalla cultura, dalle dottrine filosofiche, politiche, sociali, religiose”. Un
percorso niente affatto semplice, ma è l’unico che ci consente di fare
esperienza della vera vita,
consapevoli che la poesia è chiamare a sé le cose. Un chiamare che è anche un
corrispondere al linguaggio, abitare in esso e dargli voce: la voce intima e
segreta dell’anima. Ciò è il risultato di un costante esercizio, di un continuo
interrogarsi, di un perenne stato di allerta capace di non cedere alla realtà
fenomenologica così com’è, ma di trascenderla. La parola poetica vive
costantemente questo stato di intimità, questa incessante ricerca di
autenticità. Essere cioè dentro le cose e, nello stesso tempo, situarsi nella
quiete della dif-ferenza perché, come dice Nelo Risi, “la poesia in sé non
conta nulla, conta ciò che sta dietro la poesia e in segreto l’alimenta”. Un
alimentarsi che è anche un riconoscersi nella propria essenzialità fisica e
spirituale, un darsi continuamente alle cose per cogliere le istanze interiori
e le vibrazioni profonde dell’inconscio.
Anna Petrungaro
1)
mangiano pesce
qualcuno per scherzo dice:
stiamo mangiando corpi
- schifo e cenno di riso -
qualcun altro risponde:
non sono poi tanto male.
di questi tempi poi,
il mare è pieno di schifezze.
purtroppo ci dobbiamo abituare
- al divoramento -
Si leccano le mani
poi leccano un sorbetto
che lava e svaga
lingua e palato
2)
dicono che prende la pancia a morsi
la paura
il ministro, pure lui,
ha strane coliche
peta di bocca e non di culo
produce fuochi fatui
una pirotecnia ministeriale
cince spinge i puntini neri che
rompono il filo dell'orizzonte
Loro - i puntini neri - lo spostano
più in là - quel filo -
spalancano orizzonti dentro
che possono mordere
straripare affondare
o levarsi come albe
Gino Scartaghiande
NON FATECI ENTRARE
Non fateci entrare nei vostri porti.
Chiudete la spirale di violenza.
Noi volteggeremo, anche ingenerati,
nella méditerranée neocolonialista
dei vostri miti.
Cnosso-conosco, non di perle si nutre
la vostra sete, ma di sangue.
Per i vostri kinéma, per il pigro
vostro romanzare, per l’occupazione
della patria altrui, per il vostro stato,
noi sempre, anche ingenerati, daremo
il sacrificio necessario, l’olocausto sine qua non;
per tutte le vostre mitizzazioni, il
vitello d’oro,
l’evoluzionismo, il vostro corno della
fraternité.
Lasciateci come libro chiuso nell’Africa
di Petrarca, come le lacrime della
sterile
Didone. Non cercate di noi nei sacri
libri,
“perché moltiplicare le stelle?”.
Conone, Callimaco, un certo Simone di
Cirene,
dalla campagna, forse dalla divina comoedia,
a voi, nei vostri miti cosa può
importare?
Il magnificat di Anna, madre di
Samuele,
le spente notti teocratiche della
regina di Saba,
il pianto nel tempio, di Berenice.
Chiudete
i vostri porti, non lasciateci entrare.
Noi
non vogliamo. Anche ingenerati,
saremo
la mano d’opera dei vostri miti.
Ora
che sulle alture avete elevato tutti gli idoli,
tutte
le idolatrie da sempre, come ai tempi dei Re.
Daniela Scuncia
BALLATA SENZA SPERANZA
Ti prego barcaiolo
portami a riva
ché non pensavo all’inferno
tanto mare.
Lasciami in un porto
dove mi possa asciugare
di tutte queste lacrime e dolore.
Allontanami, ti prego
dal colore assordante,
da queste sfumature
senza nome.
Ti ho dato due monete di speranza
per attraversare quest’acqua
e non sorge altra sponda
al mio destino.
Fermati allora,
ferma il timone
che queste onde dure
spezzano il sangue.
Già la spuma mi solleva
e l’acqua dei miei occhi
confonde i sogni
e il male.
Voltati barcaiolo, guarda
non sono ormai che mare.
E volo ora a braccia aperte
tra le correnti e il cielo.
Sul fondo coralli e pesci
corpi vuoti e sassi
immersi nelle lacrime
tra il sale.
O barcaiolo, adesso è questa
la mia casa
questo è il mio mare.
Vigilo la terra all’orizzonte
nessuna nostalgia
mi farà più tornare
Antonio Spagnuolo
PAGINA PER
CAPOVERSO –
“Poesia
quotidiana, nuovi motivi emigranti”
C’erano una volta
gli schiavi, la vergogna nera di una umanità senza scrupoli, e il disonore di
popoli all’avanguardia delle civiltà.
Lo sguardo rivolto
ad altro consta sempre di molti sguardi: è un’occhiata che produce infatti
mille cose mutate, dischiudendo l’arco che permane in me, e raccoglie senza
posa visioni nuove che devono muovere da me per me e in me. La poesia diviene
immagine riflessa del reale attraverso le parole che si intercettano per
l’irraggiungibile e risuonano di metafore per accarezzare il vertice della
musica, dalle profondità misteriose alla luce sospesa e indefinita. La poesia è
il sostentamento del subconscio che cerca in mille modi di eliminare
l’illusione per accarezzare il mito della realtà incoercibile. Oggi che lo
splendore superficiale delle cose materiali vorrebbe sostituirsi mano a mano al
canto culturale della poesia il segno della completezza cerca di delimitare
altezza e profondità nella chiara necessità di tornare ad unire tutto ciò che è
separato dalla tecnica alla ulteriorità che attende l’uomo e la sua psiche. Qui
tra il vocabolo scelto oculatamente
nella melma del negativo ed il vocabolo scaturito dall’immaginazione
demistificante si accende una misura di sintesi fulminante, per idee tradotte
in poche icastiche rappresentazioni, di fronte a nuove ed ampie misure del
dettato, divenuto pertanto orchestrazione complessiva delle pagine. Il ritorno
allora non è promessa di canto ma inesauribile cammino verso ritmi fecondi,
nella interiorità delle passioni umane.
Ma il ritorno
ormai prevede un arrivo, un approdo che conceda al naufrago di toccare a piedi
nudi il selciato di una patria sconosciuta, una moderna illusione di
fratellanza che possa scandire urla di sofferenza e preghiere di accoglienza.
Il brivido, dal
quale l’anima è attraversata una volta posta di fronte all’invenzione del
canto, ha quasi sempre la pienezza dell’altrove; un altrove pressoché
sconosciuto che con il verso si concatena al pensiero, nel momento stesso in
cui il subconscio si concatena al noto.
Come intendere allora questo reale che non cessa di dischiudersi e di
sottrarsi a qualunque presa, non solo concettuale ma anche mimetica, intorno a
quel vuoto che non è possesso, ma rapidità, vortice, mobilità, struttura e
finzione, che nasconde i significati per individuare l’essenza della monade e
della parola stessa?
Rincorrere la
poesia, attraverso gli anni e nell’illusione che essa possa trasfigurare
personaggi e figure per immergere vertiginosamente il subconscio nella
immaginazione variegata e ricca di smagliature, è il percorso che il poeta
scolpisce con le sue proprie mani, validamente realizzato per chiudere il
cerchio di un diuturno lavoro come riflessione del tutto.
Le pagine diventano un viaggio orfico ed innanzi
tutto un rapporto simbolico con il mondo che circonda , nelle molteplici
attrazioni morali e culturali, una continua luminosa sequenza di conquiste del
porto sepolto , di colorate dinamiche del segno, sempre in marcia nella
formazione dello spazio e del sospeso, che paiono scaturire tutte da una
medesima sorgente , il sentimento della nostalgia e del ricordo, ed avere
pertanto una complessità e compattezza di significato, dalla memoria feconda
agli innumerevoli passaggi della visione , cammino proprio della ricerca e
della conoscenza .
Accettando il
ruolo di uomo partecipe del suo tempo, senza metafore vuote, acrobazie
sintattiche, ma non rinunciando all’investigazione linguistica il poeta compie,
a suo modo, un atto di testimonianza, che non può e non deve andare disperso.
Ogni poesia evoca gli spazi dove fuori e dentro, senza confondersi, si
rovesciano tuttavia dichiarando la comune appartenenza terrestre - alla terra,
al mondo, al momento fuggente, all’aria, alla luce, alle tenebre – di tutto ciò
che è e che deve essere interpretato dalla percezione dell’atto aperto e
condiviso dal processo poietico.
La politica
improvvisamente sancisce un divieto di sbarco per quei clandestini che cercano
quotidianamente un asilo nella nostra patria. Le passioni ribollono al cospetto
di centinaia di morti, donne e bambini avviati allo sbaraglio senza nessuna
pietà, sia dal luogo di partenza, sia all’approdo. Ma l’approdo è negato, in un
clima moderno di severità demagogica, che nulla ha a che fare con la carità
cristiana invocata inutilmente dal pontefice. Nel vortice del dubbio, aperto
dal governo italiano in questo nostro tempo, vien da chiedere a cosa mai possa
servire la poesia, un’arte derelitta e sconosciuta, espressa nel vuoto
culturale che incombe. Non è facile comprendere la validità di un decreto che
vieta lo sbarco, avvolti come siamo da
un frastuono che annebbia e stordisce.
Mauro Toffetti
ERRANTE CAVALIERE
Ho ingaggiato
un corpo a corpo
con un clandestino,
naturalizzato da 42 generazioni.
Ho combattuto
come in un videogioco della Nintendo,
contro un Procambarus Clarkii,
tra il romantico svincolo della Valtidone
e la tangenziale ovest.
C’erano anche il riso ed il granturco
a tappezzare i campi
come trame
del tappeto del mio soggiorno.
Non lo volevo sopraffare;
lo volevo salvare.
Errante cavaliere rosso,
clandestino.
Ti ho vinto!
Lello Voce
IL LAVORO CIECO
Il cuore è questo vuoto al centro del sentire
il fiore che nasce già appassito muto zittito
questo vecchio bambino e i suoi occhi grandi
questo passato già tanto passato da essere ormai
l’unico avvenire il futuro di un muro un viaggio
che non s’allontana ma sprofonda quest’onda
che passa e non tramonta la pena che sormonta
i tappi senza bottiglia il tuo corpo a miglia e
miglia
il vuoto è questo dolore che riempie l’orizzonte
questi volti immobili questo contrarsi del tempo
questo precipizio e lo sguardo nell’interstizio
a spiare l’aborto di ogni inizio le doglie con lo
sconto di ciascuna delle nostre voglie la fame
che attende paziente che pianta le tende mentre
la carica squilla gli scudi e noi nudi noi
picchiati
noi svenduti suicidati torturati e poi condannati
lavorare meno lavorare tutti respirare
carezzare urlare prendere lasciare
scegliere pensare sospettare vedere dire
distruggere costruire imparare insegnare
godere soffrire sognare vivere tutti
morire meno
solo pochi minuti fa in anticipo sul ritardo
dell’adesso ed è successo l’avete visto tutti
questo sangue e le donne in vetrina i passanti
l’abbiamo visto tutti il ghigno aspro della neve
abbiamo sentito lo stridere chioccio dei denti
negare quella risposta che da sempre ci si
mente i tonfi poi gli stivali e lo scalpiccìo
ogni
mio ogni tuo ogni suo ogni vostro ogni nostro
calpestati mentre il loro gas e la nostra massa
mentre accadeva il mentre e s’apriva il buco
s’apriva la pelle il muscolo l’osso lo zigomo
e il sangue si liberava del corpo lo sguardo
del morto questo nostro respiro così corto
noi zoppi noi storpi noi che per distrazione
abbiamo perso futuro amore rivoluzione
noi ciechi noi muti sordi i nostri colli torti
lavorare meno lavorare tutti pensare
bloccare incendiare colpire avanzare
retrocedere ritornare colpire prendere
restituire calcolare punire perdonare
compatire disprezzare agire vivere tutti
morire meno
hanno accecato il lavoro tagliato la lingua
ad ogni ribellione frantumato i timpani
della memoria strappato il cuore a ogni
sentimento bruciato i polpastrelli d’ogni
sensazione hanno disegnato la strada
e poi hanno sbarrato i cancelli hanno
riempito la nostra testa con il vuoto
dove volano i loro pipistrelli hanno
bevuto il nostro sangue il conto langue
siamo in credito di vita siamo in attesa
che sia finita questa pena infinita che nasca
la radice che traligna che esige che ora sia
esatta l’ora che fa tornare i conti siamo giunti
sin qua solo per mostrarvi i numeri la lista
e tutta l’evidente moderazione che c’è nel
comprendere come ormai l’unica soluzione
non sia un pranzo di gala ma piuttosto
tutt’un’altra rivoluzione
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