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CAPOVERSO on line - Novembre 2019


La metafora del Ponte
Conversazione con Enzo Siviero
Ci sono tanti modi di scrivere poesie; al di là, intendo, dell’usare la carta e la penna, del dare una disposizione alle parole. Di alcuni è stato scritto che sono poeti della vita, ossia che, a prescindere dall’uso che abbiano fatto o meno delle parole, il loro percorso esistenziale risulti esemplare ed emozionante come un’opera in versi. Ma ve ne è un altro, più insolito e sorprendente. Che è quello di abitare le metafore. Ossia di incarnare pienamente, nelle scelte quotidiane, il senso recondito di una parola.
Non avrei mai pensato di intervistare un ingegnere per la mia rivista di poesia. Eppure, dopo aver curato, due numeri fa, uno speciale su “poesia e popoli migranti”, la continuità ideale con quello sguardo mi è apparsa così naturale quando ho letto di un ingegnere che aveva progettato un ponte che dovrebbe unire la Sicilia, e quindi l’Europa, all’Africa. Non un ponte ideale, non un progetto culturale, ma proprio una struttura fisica. Questa “lucida follia” mi ha attratto. Allora ho approfondito il “caso”, e così ho scoperto che l’autore del progetto, Enzo Siviero, è definito il “poeta dei ponti”. Così l’ho raggiunto, e ho conversato con lui. Seguendo questa falsariga: io gli parlo dei ponti nella poesia, lui mi risponde coi ponti nell’architettura. E pertanto con il comune punto di vista, i nostri discorsi si incontrano sviluppandosi su piani diversi ma nello stesso tempo assai simili.
Gli chiedo così di parlarci di lui, di raccontarci come è nata questa passione per i ponti.

Il ponte è una metafora assoluta, che spinge ognuno di noi a praticare ponti, o meglio a “ponteggiare”: è un mio neologismo, che rende bene l’idea di connettersi con gli altri, creare rapporti. Non è un caso che il Papa stia facendo un grande uso di questa parola. Questa passione mi è nata subito dopo la laurea in ingegneria strutturale. Quegli studi mi hanno fatto riflettere che i ponti contengono la storia dell’uomo. L’uomo ha cominciato ad attraversare i dirupi servendosi di un tronco d’albero: eccoli i primi ponti! Ho cominciato facendo quello che definisco l’ingegnere “condotto”, ossia quello che fa un po’ di tutto. Mio padre aveva un’impresa di costruzioni, e io amavo non solo progettare, ma anche seguire la realizzazione di ogni struttura. Poi, insegnando alla facoltà di architettura a Venezia, ho trovato un maestro, Giorgio Macchi, un grande progettista; e rimasi affascinato per come lui affrontava il tema dei ponti, che mi sembrava, per quell’epoca (siamo nel 1972), una costruzione antica e moderna nello stesso tempo. Cioè, lui progettava delle opere pensate per essere belle. Ora, la bellezza di un ponte sta nella sua eleganza, nella sua armonia. Lo stemma dell’università IUAV di Venezia era la triade vitruviana. Ebbene, la componente della “venustas ”, che gli ingegneri negli ultimi decenni hanno trascurato, a favore di “utilitas” e “firmitas ”, mi è sembrata invece che nel caso del ponte fosse ancor più necessaria. Perché il ponte è un’opera di architettura che sta nel territorio. Un ponte brutto fa star male! A me sembra addirittura “laido”. Le brutte cose finiscono per condizionarci pesantemente, equivalgono in peggio alle cattive azioni, sono sporche, emanano energia negativa. Brutto, sporco e cattivo sono molto legati fra di loro. Quasi sinonimi! Ecco, proprio questo ho cominciato ad alimentare dentro di me. Poi, dopo una quindicina di anni, mi è capitato di progettare un viadotto, che da sempre definisco impropriamente ponte, ma non n e ero soddisfatto. L’impresa tuttavia chiese al professor Macchi di elaborare una variante migliorativa. Allora lavorammo in totale sinergia, io e il mio maestro: ne è venuta fuori un’opera straordinaria, si trova a San Pietro in Gù in provincia di Padova. Un viadotto snello e leggero elegante e sinuoso, un’opera di altissima qualità. Da quel momento ho capito che il tema del ponte era nel mio dna e lo potevo finalmente mettere in pratica. Però non mi bastava la componente fisica, mi interessava l’interazione che c’è fra soggetto e oggetto. Dove per soggetto non intendo solo l’uomo, ma anche il ponte. Perché il ponte ispira, ti parla. Quando si vede un bel ponte ci si sente bene, ti emoziona, è come ammirare un bel quadro. L’Italia ha dei ponti bellissimi, e non solo quelli romani o medievali, rinascimentali o sette ottocenteschi. Anche nel secolo scorso sono stati realizzati capolavori indiscussi, purtroppo poco noti, con progettisti ai vertici della cultura tecnica non solo nazionale. In particolare una figura di assoluta eccellenza, oggi malauguratamente e inopinatamente vilipesa, che invece mi aveva molto colpito all’epoca: Riccardo Morandi. Mi regalarono una prospettiva del suo ponte in Libia, il famoso Wadi Kuf, e quell’immagine mi rimase impressa per la sua potenza costruttiva ma, nel contempo, come grande opera di architettura territoriale. Perché il ponte è un’opera di architettura pura: non deve esibire se non sé stesso. È come se non fosse nemmeno vestito: ha la bellezza delle nudità femminili delle statue greche. Da quel momento in poi ho coltivato la passione della mia vita, ma dovevo ancora arrivare alla piena maturità. Ossia alla consapevolezza culturale. Ho cominciato a lavorare sui ponti coi miei studenti e con le tesi di laurea. E proprio nell’interazione con loro ho approfondito la valenza antropologica di queste strutture. Mi ritengo un privilegiato, perché io i ponti li penso, li concepisco, li studio, li progetto e li costruisco, li interpreto e spesso li correggo. Ora, quando devo cimentarmi sul progetto di un ponte, vado nel luogo, ascolto il vento, annuso, sento l’aria, assaggio, tocco, cerco di usare i cinque sensi tra loro interconnessi per cogliere il genius loci. Poi, dopo che ho realizzato il ponte, è lui a diventare il soggetto, e ne determina il luogo. Lo afferma pure Heidegger. Ho pubblicato molto sull’argomento. Ora, nella progettazione di un ponte, penso sempre a un aspetto di trasformazione del luogo, in cui il contesto mi ispira. Ad esempio, mi è capitato di progettare un ponte vicino ad un vecchio mulino ad acqua. Ebbene, ci è venuta l’idea di disegnare i parapetti sostenuti da elementi a raggiera che, in qualche modo, richiamano l’idea della ruota. E ancora il reale che diventa virtuale allorché, come nel mio ponte di Battaglia a Padova, l’arco che si specchia nell’acqua diventa un occhio e ruotando di 180 gradi ridiventa sé stesso. Il reale che si trasforma in virtuale per ridiventare sé stesso. Cosicché essendo egli un occhio, è ora il ponte che guarda te, e ti giudica per le tue azioni. Allora chi è soggetto e chi è oggetto? E ancora, come nel mio ponte di San Donà di Piave ove metaforicamente s i richiama alla mente un animale che d’un balzo salta fuori dall’acqua, va al di là delle arginature per non commettere il sacrilegio così come magistralmente ci racconta Anita Seppilli. E non è straordinariamente emozionante tutto questo? 
Ho cominciato a scrivere di ponti, ma anche di rapporti fra le persone. Questa passione, alla fine, è diventata un’ossessione in positivo. Mi sento intrinsecamente coinvolto. E di conseguenza mi arrabbio molto quando vedo dei progetti non pensati, banali, brutti e fatti male. Purtroppo negli ultimi decenni questa è diventata la regola. Una vera e propria “involuzione culturale” indegna del nostro gloriosissimo passato. 

Una delle poesie più celebri sui ponti è quella di Guillaume Apollinaire, “Le pont Mirabeau”. Questa composizione contiene i versi: “Sous le pont Mirabeau coule la Seine / Et nos amours / Faut-il qu’il m’en souvienne / La joie venait toujours après la peine / Vienne la nuit sonne l’heure / Les jours s’en vont je demeure”. Ecco, questo “je demeure” mi sembra significativo. Dunque il ponte non è soltanto una passerella da attraversare, ma anche un luogo da abitare, in cui si può dimorare? Il che, naturalmente, vale sia nella sua dimensione fisica che in quella metaforica.

Certo. Il ponte abitato è stato un momento topico. In Italia o ltre a numerosi e poco conosciuti di piccola dimensione, ne abbiamo due celeberrimi: Ponte Vecchio a Firenze e Ponte di Rialto a Venezia. Ponti in cui ci si ferma, e in cui si vive. Ma nella storia gli esempi sono tanti, a partire dall’Old London Bridge. O Parigi entrambi distrutti dagli incendi. Ve ne è poi uno su un affluente della Loira a Chénonceaux, un castello sull’acqua dove ha abitato una delle due Medici regina di Francia. Ma anche un altro è particolarmente significativo. Si trova a Ishfahan in Iran. L’ho messo nella copertina della mia rivista Galileo in un numero titolato IL PONTE E I SUOI MITI. Oggi purtroppo è privo di acqua e il suo fascino ha subito l’ingiuria del declino. Devo dire tuttavia che per me il ponte si abita anche in maniera diversa: non solo permanentemente, ma contingentemente. Mi viene in mente la magia del ponte sul Corno d’Oro a servizio della metropolitana di Istanbul con la stazione sospesa sull’acqua, i pennoni che svettano verso il cielo e i percorsi pedonali che assumono le vesti di una balconata verso la penisola storica dove l’Unesco la fa da padrone. E ancora a Coimbra, in Portogallo, c’è una passerella in cui il progettista ha creato una sorta di piazza centrale: la gente va lì con la propria sedia, per guardare l’acqua che scorre, e chiacchierare, anche solo per stare insieme. Le passerelle ispirano una dimensione che non è solo quella del transito, ma anche quella della sosta. E nella sosta si pensa, ci si guarda, ci si parla, ci si ama. Ecco: il ponte più bello che si possa immaginare è quello fra un uomo e una donna, perché produce la vita. Il ponte è dunque la vera metafora dell’amore. Ebbene se così è il ponte va attraversato lentamente, perché lì ci si può incontrare: ed è allora che si determina un ponte, il ponte umano. Amicizia e fratellanza, pace e gioia. 

Le cito un altro poeta. Stavolta è Byron. A proposito del Ponte dei Sospiri, ha scritto: "Ero a Venezia sul Ponte dei Sospiri; un palazzo da un lato, dall'altro una prigione; vidi il suo profilo emergere dall'acqua come al tocco della bacchetta di un mago."

Questo mi fa venire in mente il mito della fata Morgana. A proposito del ponte sullo Stretto di Messina, una volta ho immaginato Scilla e Cariddi che si guardano, e si interrogano. Perché non incontrarci? È così che tra loro interagiscono e sentono prorompente la necessità di collegarsi. Questo “bridging” viene determinato dalla Fata Morgana che fa emergere dalle acque insidiose dello Stretto non la città, ma il ponte. Dunque ho immaginato un ponte che sorge dalle acque, una sorta di Venere nella meravigliosa interpretazione di Botticelli. D’altronde un ponte, se è tale, deve stare sull’acqua, altrimenti si chiama viadotto. Io a dire il vero da anni suggerisco di chiamare ponti quelli belli e viadotti quelli brutti, ma mi illudo... in verità questa idea dell’acqua è centrale per l’uomo e non solo... perché essa ti fa vivere se è nella quantità giusta; se invece è in eccesso ti fa morire annegato, basta pensare alle inondazioni, se poi è in difetto ti fa morire di sete. Ciò che purtroppo avviene sempre più di frequente nel mondo. Allora, di fronte all’acqua noi abbiamo una suggestione, che passa dalla vita alla morte; e nel mezzo, ci sta proprio il ponte. Dal divino al diabolico! Perché per superare il corso d’acqua devi costruire un ponte. È attraversare il ponte sull’acqua che ti fa vivere. Pensiamo ai bambini, che dal ponte buttano qualcosa sull’acqua, ad esempio una foglia, per osservarla mentre va dall’altra parte, portata dalla corrente. Panta rei. Perché sotto il ponte l’acqua non è stagnante, c’è il movimento quindi c’è la vita. E ancora: pensiamo al fiume sacro, il Gange, ai ponti votivi ai ponti di barche. L’uomo è costruttore di ponti. Ognuno di noi può essere nel suo piccolo un “pontifex minimum”, anche se oggi disgraziatamente si preferiscono di gran lunga i muri. 

Adesso però vorrei sollecitarla su un aspetto opposto. Ci sono dei ponti che non parlano di vita, ma di morte. Mi riferisco a quello di Paderno d’Adda, ormai chiamato il ponte dei suicidi, dove decine di persone scelgono di farla finita, gettandosi nel vuoto dai suoi 85 metri di altezza sopra il fiume. E così, quello che è un gioiello architettonico dell’archeologia industriale è divenuto simbolo di dannazione. E poi penso al Golden Gate Bridge. Ma cosa spinge un soggetto a ricercare la morte recandosi fino al Golden Gate, arrivando da ogni parte del mondo?

Le dirò di più: ci sono anche dei ponti in cui i cani vanno a suicidarsi. L’ho scoperto per caso. Non sono leggende. Il ponte è sempre stato considerato un’opera straordinaria, dunque, per realizzarlo, in qualche modo bisognava vendersi l’anima al diavolo! Poi ci sono tanti ponti che sono crollati, anche quelli romani. Nell’immaginario collettivo il crollo è attribuito alla cattiva sorte. Credo che proprio questo aspetto sovrannaturale dell’opera incida sulla psicologia della disperazione umana: quasi che, scegliendo l’opera simbolo per lanciarsi nel vuoto, ci renda immortali. Il gesto in sé è eclatante: è la fine di una vita ma, secondo chi si suicida, è semplicemente l’inizio di un’altra vita. L’illusione: un ponte sull’eternità. 

D’altra parte il ponte è anche un luogo dal quale osservare il mondo. Per Pascoli “un suono di singulti / l’onda si rompe al solitario ponte”. Ma veniamo al tema a lei più caro, quello del ponte che congiunge, del ponte come amore. In “Oltre il ponte” Italo Calvino scrive: “Avevamo vent'anni e oltre il ponte/ oltre il ponte ch'è in mano nemica/ vedevam l'altra riva, la vita /tutto il bene del mondo oltre il ponte. /Tutto il male avevamo di fronte/ tutto il bene avevamo nel cuore/ a vent'anni la vita è oltre il ponte/ oltre il fuoco comincia l'amore”.
E poi, tornando da Rabat, il papa ha citato “Il ponte sulla Drina” di Ivo Andric: «Il ponte è fatto da Dio con le ali degli angeli perché gli uomini possano comunicare». Il ponte contrapposto al muro.

Sì, il ponte come connessione. Bridging Cultures and Sharing Hearts. Il mio motto! Dobbiamo “ponteggiare”, riuscire a metterci in connessione con gli altri. Che poi è il contrario di “tagliare i ponti”. Non basta costruire un ponte, bisogna avere il coraggio di attraversarlo per andare verso l’ignoto, “oltre l’oltre”. In una dimensione non più dominabile a priori. Ma che va cercata e vissuta. Questa dimensione non fisica è quella che ci porta avanti. Noi viviamo di emozioni, senza quelle saremmo dei vegetali. Quando guardo un ponte mi emoziono. Per me il ponte parla, anche perché ha sofferto come l’uomo e la donna, nel venire al mondo. La nascita come atto supremo di dolore e gioia. 

Alla fine degli anni Ottanta del secolo scorso abbiamo vissuto un tempo in cui si abbattevano i muri, sembrava che il mondo diventasse più ragionevole, che cadessero le barriere fra gli uomini. Negli ultimi anni invece abbiamo ripreso a costruire muri, erigere steccati, porre barriere di filo spinato. In questo tempo lei propone di costruire un ponte fra l’Italia e l’Africa. E l’idea è affascinante, perché completamente fuori posto, alternativa, in questi anni. Sì da affiancarla agli utopisti, ai poeti, ai profeti: insomma ai lucidi folli di ogni epoca.

Sia in Africa che in Asia il discorso è visto in tutt’altro modo, rispetto a noi. Io non ho progettato solo un ponte fra la Sicilia e la Tunisia quindi tra Europa e Africa, ma anche uno fra la Puglia e l’Albania per poi tramite la Grecia e Istanbul collegarsi con l’Asia. Sullo stesso tracciato Sicilia Tunisia era stato progettato un tunnel, ma a mio avviso sarebbe più conveniente, e possibile tecnicamente, costruire un ponte. O forse come sta avvenendo in tutto il mondo, in parte un ponte e in parte un tunnel, con alcune isole artificiali intermedie. Per una trasformazione del Mediterraneo da ponte liquido (il pontos greco) in ponte solido. Oggi è ancora considerata ingegneria visionaria, ma fra vent’anni, ne sono certo, si farà. Perché nella storia è l’ingegneria visionaria che ha determinato l’avanzamento della civiltà. Sarebbe un’opera straordinaria, che farebbe lavorare migliaia di persone. La Tunisia diventerebbe la porta dell’Africa, e il Sud dell’Italia decollerebbe come “cerniera” tra Africa e Asia. Ancora proseguendo d’un balzo non impossibile, dalla Puglia all’Albania, Grecia e Turchia. Ritrovando le vie della sera, il cammino verso la Cina di Marco Polo e Matteo Ricci . E invece a che serve costruire muri? Pensiamo alle tragedie dei migranti. Vite senza vita. Votate alla sofferenza estrema fino alla morte. Speranze naufragate nell’indifferenza dei più. Guardate con fastidio e perciò da negare o peggio ignorare. Nulla è più disumano del guardare da un’altra parte. Una narrazione che si tende a minimizzare. Perché tutto questo? Perché non pensare all’accoglienza come una opportunità per il futuro del nostro paese in crisi di nascite? Perché non organizzare in modo sistematico una scolarizzazione mirata? La nostra lingua, le nostre leggi, la nostra cultura e la comprensione che accanto ai diritti sono più importanti i doveri, troppo spesso minimizzati. Ciò per orientare al meglio un inserimento nella nostra comunità di questi poveri esseri umani rei innocenti di essere nati nei posti sbagliati. Questo è ciò che l’Europa dovrebbe perseguire. Il diritto all’essere uguali agli altri, superando i privilegi e le malvagità per costruire un mondo all’insegna della fratellanza, della pace e dell’amore, così come ci impone il rispetto del Vangelo. E grazie anche al magistero del Santo Padre, penso che il futuro possa essere meno fosco. Il Mediterraneo deve tornare ad essere il luogo della Civiltà, non più il cimitero della Misericordia, ma il PONTE UMANO per eccellenza. Dobbiamo crederci! La vera Europa del futuro, come lo fu nel passato, non può che essere il Grande Lago. Mare Nostrum perché di tutti. 
L’incontro finisce qui; ma Siviero non ha smesso di sorprenderci. Tira fuori un suo libro, si intitola “Il ponte umano” è un volume che raccoglie “pensieri e ricordi in libertà di Enzo Siviero”; ma anche poesie. E così chiudiamo la conversazione pubblicando una sua poesia:

Il ponte infinito

È il ricordo di uno sguardo l’emozione di un sorriso
il soffio di una carezza il brivido di un bacio.
È l’insegnamento di una frase l’amarezza per un errore la sofferenza nel dolore la gioia dell’amare.
È un discorso con tuo padre una nuotata in riva al mare una corsa in motocicletta una lezione preparata in fretta. Il ponte infinito è il pensiero più profondo
il ricordo più nascosto un’emozione ritrovata.
Il ponte infinito è
quando non hai paura di andare avanti
quando ti guardi indietro e accetti i rimpianti
quando sai ammirare un tramonto sul mare
quando hai un sogno e lo vuoi coltivare
quando ti fermi un momento a pensare
quando senti il ponte e lo vuoi assaporare
quando leggi il libro più importante che hai mai scritto, sicuro che le pagine più belle arriveranno domani perché il ponte infinito è la storia di te stesso
è il libro della vita.

                                                                       (a cura di Franco Dionesalvi)

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